Rizzoli: «Lo sport? Una scuola di vita»
Nicola Rizzoli, entrato ieri nella Hall of Fame del calcio italiano, è oggi Designatore degli Arbitri di Serie A ed ex arbitro internazionale fra i migliori al mondo.
Nicola Rizzoli, entrato ieri nella Hall of Fame del calcio italiano, è oggi Designatore degli Arbitri di Serie A ed ex arbitro internazionale fra i migliori al mondo.
È stato senza dubbio uno dei migliori arbitri del calcio italiano. Al punto che l’Associazione Italiana Calciatori l’ha premiato per ben sette stagioni consecutive, dal 2011 al 2017. E da ieri è addirittura nella Hall of Fame del calcio italiano. Nicola Rizzoli, nel corso della sua carriera, ha arbitrato centinaia di partite, in Italia e all’estero, in un crescendo che l’ha visto direttore di gara nella finale di Europa League nel 2009, nella finale di Champions League nel 2013 e – l’anno successivo – nella finale di Coppa del Mondo, al Maracanà di Rio de Janeiro, nell’infinita sfida fra Germania e Argentina. Terzo italiano nella storia dopo Sergio Gonella (Argentina 1978) e Collina (Giappone-Corea del Sud 2002). Insomma, appartiene senza ombra di dubbio al gotha dell’arbitraggio mondiale.
Il fischietto bolognese – nato però a Mirandola, in provincia di Modena, nel 1971 – ha raggiunto in quell’occasione l’apice della sua carriera, il sogno di ogni “giacchetta nera”, come venivano chiamati un tempo gli arbitri. Nonostante questo, però, Rizzoli mantiene ancora la stessa affabilità e tranquillità dimostrata agli esordi, come solo i grandi possono vantare. E che forse rimane il segreto del suo successo. Ne ha viste di tutti i colori, nell’arco dei suoi 30 anni di attività (iniziò a 16 anni) e le sue memorie sono ora racchiuse in un libro dal provocatorio titolo Che gusto c’è a fare l’arbitro, (uscito, manco a farlo apposta, per le edizioni Rizzoli, nda) in cui ripercorre gli episodi salienti della sua luminosa carriera. Oggi, nel complesso ruolo di Designatore degli Arbitri di Serie A, prosegue da dirigente nel mondo in cui ha lavorato una vita, ma forse non tutti sanno che Rizzoli è un architetto prestato al mondo del calcio. Nel suo coinvolgente speech che ha portato sul palco del recente TEDxVerona, infatti, ha raccontato che la sua passione è sempre stata quella di disegnare case, anche in luoghi inaccessibili. Poi le sue scelte lo hanno portato ai vertici della categoria, ma quell’imprinting, in qualche modo, gli è rimasto dentro. Ma da disegnatore di case a designatore di arbitri, in fondo, il passo non è stato per nulla breve.
Rizzoli, partiamo da una domanda banale: perché una persona che ama il calcio un bel giorno decide di fare l’arbitro?
«Me lo chiedo tutti i giorni, ancora oggi, a distanza di quasi trent’anni dal giorno in cui decisi di indossare per la prima volta la divisa di arbitro. Successe quando, allora sedicenne, giocavo in una squadra giovanile della mia città ed ebbi una discussione con l’arbitro della partita che non sanzionò adeguatamente un fallo piuttosto grave che subii. Decisi allora che dovevo scoprire tutti i segreti del regolamento e così mi iscrissi al corso per arbitri. È stato, quello, l’inizio di un percorso lungo tre decenni che, dai campetti di provincia e dalle trasferte in solitudine in ogni angolo d’Italia, mi ha condotto ai palcoscenici mondiali più prestigiosi.»
Eppure il suo destino la poteva portare altrove…
«In effetti attraverso gli studi sono diventato architetto, ma poi mi sono trovato a fare una scelta importante fra le due carriere e la passione per il calcio ha, alla fine, prevalso.»
Sul palco del TEDxVerona ha raccontato che in particolare una partita, un giorno di tanti anni fa, ha cambiato il suo destino. Durante l’intervallo dopo un primo tempo difficile fra pioggia, fango, freddo e squadre indisciplinate, ha preso la decisione di trasformare un “ma chi me l’ha fatto fare” in una grande carriera…
«Come tante persone, anche io non voglio mai perdere. Anche quando gioco una partitella con gli amici. Il mio obiettivo è quello di vincere, sempre. E quella volta lì io stavo perdendo. Ero fuori controllo, demotivato, ma proprio in quel momento mi sono deciso a cambiare. Sono rientrato in campo convinto di me e di quello che stavo facendo. Ho condotto a termine la gara e da quel momento non mi sono più fermato. Peraltro, io sono stato sempre un freddoloso, ma da quella partita in poi ho sempre giocato in maniche corte. Anche a Mosca, una volta, durante una partita disputata a meno 7 gradi. Si vede che quella decisione, quel giorno, ha inciso soprattutto nella mia testa. Certo, quando inizi non hai la minima idea di dove potrai arrivare.»
Quali sono gli aspetti più importanti a cui andare incontro per un arbitro quando affronta una partita?
«È fondamentale prepararla nei minimi dettagli. Esattamente come fa un allenatore, che si guarda i video della squadra che deve affrontare, anche l’arbitro ha bisogno di studiare i giocatori che dovrà arbitrare. Il loro comportamento, che tipo di reazione hanno di solito, cosa è meglio fare o non fare per interagire al meglio, durante la partita, con loro.»
Che tipo di collaborazione si aspetta l’arbitro dalle due squadre in campo?
«L’unica cosa che ci si deve aspettare è il rispetto, della persona e del proprio lavoro.»
Cosa occorre fare quando all’inizio della partita le due squadre dimostrano di aver interpretato il match in maniera troppo “accesa”?
«Non c’è un’unica strada in questi casi. Ci sono match in cui l’arbitro sceglie di lasciarli sfogare e ce ne sono altri dove, invece, intende far capire, magari con qualche cartellino giallo, che non intende in nessun modo lasciarsi sfuggire di mano la situazione. Dipende molto da come si è preparata la partita.»
E come va gestita la situazione quando ci sono intemperanze sugli spalti?
«In occasione di un Messina-Catania dell’allora serie C1, caldissimo derby siciliano di tanti anni fa che avrebbe decretato quale delle due squadre sarebbe salita in serie B, mi sono ritrovato a dover affrontare il capo degli ultrà del Messina, che continuavano a lanciare fumogeni in campo non permettendoci di proseguire il match. Una volta responsabilizzato questo individuo, la partita è proseguita senza altri intoppi. È stato un momento delicato, in cui le forze dell’ordine non riuscivano a gestire al meglio la situazione e io, ancora giovane arbitro (27 anni, nda) ho dovuto prendere una decisione drastica, ma che si è rivelata vincente. Non posso dire che si debbano gestire sempre così tutte le situazioni, ovviamente, ma in quel caso l’arbitro è andato oltre le sue competenze per tranquillizzare, riuscendoci, la situazione.»
In questo senso come può aiutare il praticare sport nell’educazione di un ragazzo? Chi di solito commette intemperanze allo stadio risulta non avere avuto alle spalle un’attività sportiva…
«C’è indubbiamente una correlazione fra la mancanza di cultura sportiva e l’essere protagonisti di intemperanze all’interno degli stadi. Di certo chi pratica sport e cresce nel rispetto delle regole, degli avversari, dell’arbitro e dei propri compagni è meno portato a lasciarsi andare a comportamenti antisportivi.»
L’esempio dei campioni quanto può risultare importante?
«Ho avuto la fortuna di arbitrare tantissimi campioni, anche se non tutti lo sono anche dal punto di vista umano. Alcuni, invece, lo sono in tutti i sensi. Parlo di giocatori di un livello riconosciuto da tutti, non certo solo da me. Roberto Baggio, che arbitrai in un Lazio-Brescia ai miei esordi in serie A, è stato un vero Campione, con la C maiuscola. Capì che i giocatori della Lazio stavano tentando di mettermi pressione e mi si avvicinò, assicurandomi la massima collaborazione da parte sua e della sua squadra. Fu un segnale importante per me. E la stessa cosa è capitato anche con altri grandi capitani del passato, come Zanetti, Del Piero o Maldini. Tutte persone che hanno sempre dimostrato in campo un comportamento e un rispetto per le regole, per i ruoli. È chiaro che queste persone mi hanno insegnato molte cose e mentre li arbitravo imparavo. È stata una fortuna, per me, avere a che fare con queste bandiere. Bandiere che diventa sempre più difficile trovare, oggi, per il calcio italiano. Ormai non ci sono più i giocatori che rimangono per tanti anni con la stessa maglia.»
E veniamo a quella finale di Coppa del Mondo al Maracanà, fra Argentina e Germania. Quando, durante quella competizione, uscì l’Italia, cominciò subito a parlare di lei come una delle eventuali opzioni per l’atto conclusivo. E così fu…
«Siamo tutti tifosi della Nazionale e vorremmo che andasse sempre il più avanti possibile in queste manifestazioni, ma è ovvio che quando, purtroppo, viene eliminata, entra in gioco la possibilità, per gli arbitri italiani, di dirigere le partite più importanti del torneo, Lì per lì pensi solo a fare il tuo meglio. Se questo, poi, ti porta fino a dirigere la finale, arrivano una bella soddisfazione e un grande onere. Quel giorno, in quel mitico stadio, c’erano due squadre che rappresentavano le rispettive nazioni, ma c’ero anche io, nel mio piccolo, che portavo il tricolore in quel match. Io dico sempre che ci sono tre squadre in campo e quella degli arbitri era una squadra italiana. È stata una bella sensazione. Una volta andato sul palco a prendere la medaglia-ricordo ho portato con me la bandiera italiana. Ci tenevo tantissimo.
La sua finale è arrivata soltanto dodici anni dopo quella arbitrata da Collina in Giappone, nel 2002. Questo dimostra quanto è importante la scuola degli arbitri italiani.
«Sì, la scuola italiana negli ultimi vent’anni anni è stata incaricata di arbitrare due finali dei Mondiali, una finale degli Europei, tre finali di Champions League, due finali di SuperCoppa, quattro finali di Europa League. Vuol dire che come scuola, come insegnamenti, anche a livello internazionale può dire la sua.»
Adesso lei è dall’altra parte della barricata, nel ruolo di Designatore degli Arbitri di Serie A. Quali sono gli aspetti più complicati di questo compito?
«La parte più difficile è che dobbiamo fare un cambio generazionale. In pochi anni perdiamo, per età, gli arbitri più esperti e rappresentativi e dobbiamo costruire i giovani. Dobbiamo migliorare anche da un punto di vista tecnologico. Questo mix di tecnologia e arbitro nuovo, più giovane, è complicato. Ci vorrà del tempo, facendo tesoro degli errori, ma siamo convinti che la strada intrapresa sia quella giusta. Ci dev’essere un obiettivo ben definito che è quello di non snaturare il calcio, che deve rimanere uno sport. La tecnologia deve essere un aiuto quando serve, ma non deve modificarne lo spirito di fondo. Quindi è un obiettivo bello, divertente. Si sentono le pressioni, ma andiamo avanti con entusiasmo.»