Il vino italiano aumenta le vendite all’estero per valore con un +3,3% ma diminuisce per volume, registrando un calo dell’8,1%.

L’Istat riporta in questi giorni, infatti, un nuovo record per le etichette italiane vendute nel mondo, che arrivano a superare i 6,2 miliardi di euro di fatturato, con un aumento di 200 milioni in 12 mesi; vi è poi un’elaborazione sui dati dell’Osservatorio Qualivita Wine che dettaglia l’aumento di valore nei differenti paesi +4% per Stati Uniti e Germania, +10,1% per la Francia (!) e +7,5% per la Svezia. Giappone pressoché invariato, flessione per Cina e Russia (-2,4%), dove continuiamo a essere deboli, e aumenti significativi in mercati relativamente inediti come Polonia, Australia e Corea del Sud. Va detto che il 61% dell’export del vino italiano per valore è destinato in Europa (+3,2%), il 31% in America (+3,3%), il 7% in Asia (+2,4%).

Romanée Conti

Aumenta insomma il valore e diminuisce la quantità esportata

Per quanto la notizia possa sembrare contrastante si tratta invece di un’ottima notizia, poiché ripaga, o almeno inizia a ripagare, le strategie ormai messe in atto da tempo (tanto) e i grandi e mirati investimenti, OCM in primis, che si sono fatti in questi anni, nella nostra disperata rincorsa dei cugini francesi, verso una percezione di valore all’estero che sia più aderente all’alta qualità dei vini italiani. Perché è alta.

Dico “disperata” perché i francesi – nonostante in questi ultimi cinque anni le loro denominazioni meno blasonate non abbiano avuto vita facile – non li raggiungeremo mai, lo sappiamo, visto che si tratta di una corsa sull’immaginario (e non solo, ma l’elenco sarebbe infinito), in cui loro sono partiti la bellezza di cento anni prima di noi.

E se, rispetto ai vini italiani, il motivo d’attrazione per il mercato estero –con le dovute eccezioni – era stato, fino agli anni Novanta, legato agli ettolitri a basso costo di sfuso provenienti dal Belpaese (dovete immaginare vagonate di container di vino da prezzo), a causa dello scandalo del metanolo del 1986 e del Mercato Comune europeo che inizia a bussarci sulla spalla per un allineamento normativo (saremmo altrimenti forse ancora alla legislazione del 1963, visto che sostanzialmente la politica fino a quel momento aveva dimostrato ben poco interesse per l’agricoltura), è proprio con gli anni Novanta che inizia la svolta. E all’estero se ne sono accorti, eccome.

Merito forse della necessità di più controlli dopo il “disastro metanolo” o dell’Unione Europea, che finalmente a quel tempo ci ha portato a fare i conti con la valorizzazione dei nostri territori e tradizioni (nonostante un percorso legislativo lungo e periglioso), sta di fatto che in quegli anni la viticoltura italiana ingrana la quarta, punta in alto e fa passi da gigante sia dal punto di vista culturale, che tecnico e imprenditoriale. Sempre più industriali investono nel vino, insomma.

Di sicuro era il periodo degli enologi di grido, dei vini impenetrabili, superconcentrati, morbidoni, quasi masticabili (e tutti molto simili tra loro, diciamolo) che tanto hanno impazzato sulle nostre guide (e quelle di Parker). Però, grazie a quei vini, sul mercato abbiamo cominciato a competere alla grande. Anche perché la qualità tecnica, la pulizia e l’affidabilità finalmente c’erano… e costavamo ben meno dei francesi.

Chateau de Pommard

Ma costiamo ancora, decisamente, troppo poco

Se con la storia e la tradizione del terroir francese non possiamo competere, questo è chiaro, di sicuro oggi, vent’anni dopo, usciti da quel buio bicchiere impenetrabile, ridata la terra all’artigianalità contadina e un poco tolta agli “enologi di grido”, possiamo competere per altri elementi. Come ad esempio il nostro variegato patrimonio ampelografico, la moltitudine e le peculiarità dei nostri vitigni autoctoni (che in nessun altro posto al mondo sono così numerosi come qui) e le tante storie di quei produttori che ci sono da generazioni, ma che oggi sono forse un po’ più coraggiosi nell’uscire allo scoperto con scelte meno allineate col mercato, mettendo nel bicchiere più verità, più fatica e la vivida espressione del loro territorio, con dei risultati, a volte, di un’eleganza e finezza inaspettate.

Ed eccolo qui, perché è questo, e lo stiamo vivendo, il magico momento della viticoltura italiana. Che, forse, non ha mai avuto tanto valore come ne ha oggi.