In ogni sistema fiscale esistono varie leve che il Legislatore può diversamente azionare per dare vita a un’idea di Stato sviluppando la propria strategia di politica fiscale. Molto si è dibattuto in altri periodi storici sull’opportunità di limitare il prelievo sulla base di componenti reddituali o estenderlo a componenti patrimoniali (le imposte sulle proprietà immobiliari o sui patrimoni in successione sono gli esempi più concreti). Oggi questa contrapposizione tra i diversi schieramenti è meno accentuata, probabilmente per opportunismo elettorale nessuno ritiene ragionevole affrontare la questione con determinato buon senso e senza pregiudizi, ma è evidente che questo sia un argomento che ritorna periodicamente alla ribalta. D’altronde non si può negare che discutere se effettuare prelievi fiscali, sul reddito dei contribuenti, su quanto guadagnano o sulla loro ricchezza, sia davvero un tema centrale in ambito fiscale. Così come appare evidente che alla questione sia difficile approcciare sempre con medesima visione trascurando il periodo storico che affrontano Stato e cittadini. Nel Dopoguerra in Italia, nel periodo del boom economico, logicamente si è affermato un sistema fiscale a forte vocazione reddituale visto che la famiglia media aveva scarso patrimonio, ma crescenti aspettative reddituali. Oggi la situazione appare francamente ben diversa con molte famiglie patrimonialmente piuttosto solide, ma con insufficienti o precarie aspettative reddituali. Eppure, gli schieramenti politici stentano ad avviare un sano ed equilibrato confronto sulla gestione delle leve reddituali e patrimoniali, forse ritenendo che il cittadino sia atavicamente allergico ad ogni forma di prelievo patrimoniale. Almeno in parte non si può dar loro torto, anche perché nel recente passato ogni nuova imposta patrimoniale introdotta nel sistema fiscale italiano non è stata accompagnata da un minor prelievo reddituale; in sostanza le imposte patrimoniali vengono lette come un generale aumento di fiscalità.

Assecondando queste considerazioni, l’attuale Governo non sembra aver tracciato un solco di discontinuità rispetto al recente passato, avendo riformato, e pesantemente, solo le leve reddituali, ignorando la sfera patrimoniale. La questione però, nell’effettuare una valutazione dei provvedimenti introdotti nella Manovra, si sposta anche su altre leve. Questo Governo ha infatti rivoluzionato e ridotto il prelievo sul lavoro autonomo, senza minimamente incidere sul prelievo del lavoro dipendente. Non solo: dove è intervenuto ha abbandonato la logica della progressività dell’imposta, affidandosi alla tanto proclamata Flat Tax. Tale riforma merita alcune sintetiche riflessioni.

In primo luogo, occorre valutare come la progressività dell’imposta sia un caposaldo indiscutibile dei più evoluti sistemi fiscali, tra cui quello italiano, che rappresenta l’idea che maggiori oneri di contribuire al sostentamento dello Stato abbiano quei cittadini che guadagnano di più. Non solo: la progressività dell’imposta reddituale, applicata secondo i cosiddetti scaglioni, presenta come effetto benefico il fatto che non si introducono pesanti sperequazioni tra contribuenti che guadagnano cifre simili, aspetto questo che almeno in parte disincentiva l’evasione. Queste considerazioni hanno sempre messo in guardia i Legislatori Nazionali europei e non dall’applicare Flat Tax su ampia scala e per periodi prolungati. Chi lo ha fatto (Russia, Slovacchia per citarne alcuni) non ha registrato effetti benefici: l’aliquota fissa, spesso anche incentivante, non ha fatto emergere il sommerso, ha semplicemente ridotto il gettito fiscale disponibile per lo Stato. Molti dubbi dunque presenta la convinzione che una Flat Tax con aliquota agevolata possa ottenere effetti benefici nel sistema fiscale italiano, già pesantemente e storicamente debilitato da milioni di contribuenti evasori, semmai il rischio è contrario.

In secondo luogo, l’aver avviato un percorso di forte incentivazione per tutti i lavoratori autonomi con dichiarazione dei redditi annua sotto ai 65.000 euro e, in parte, sotto ai 100.000 euro, trascurando completamente i lavoratori dipendenti, apre a questioni sociali di largo impatto. La previsione infatti è che molte aziende, ma anche molti stessi dipendenti, obnubilati dall’aspettativa di una minor imposizione fiscale e, quindi, di maggiori entrate correnti, possano concordare rapporti contrattuali autonomi che celano veri e propri rapporti di lavoro subordinato. Il problema è che saranno rapporti con le tutele e la precarietà tipiche del lavoro autonomo. In sintesi, possiamo definirla una potenziale fregatura per tutti quei lavoratori che non hanno né l’attitudine né le competenze professionali da autonomi, proprio quelle fasce di popolazione che, in tempi di crisi, andrebbero maggiormente tutelate. Anche prescindendo da queste previsioni, che come tali non è detto che si verifichino, è discutibile che una Manovra dimentichi del tutto la larga fascia di popolazione dipendente, proprio quella a cui sono stati volti molti proclami. Una dimenticanza che viceversa ha tutta l’aria di essere una chiara strategia politica che ancora una volta non introduce elementi di auspicata flessibilità nel mercato del lavoro, ma di precarietà, che è concetto ben diverso.