Fine 2018, scontri allo stadio: un morto, arresti, indignazione, titoloni sui giornali, pericolo di rappresaglie, allarme sicurezza. Una manna per il giornalista malpagato a corto di notizie; se la cosa viene montata bene, in mancanza di un nuovo post della Ferragni (come è che si chiama?) su cui concentrare l’attenzione, facile che ci scappi anche un nuovo Decreto d’urgenza con la maggioranza che si vanta di aver risolto una situazione che quelli prima hanno lasciato stagnare, e la minoranza che dimostra senza dubbio come il Decreto stesso dia nuove armi ai facinorosi invece di neutralizzarli. Che noia.

Pace all’anima di chi ci ha lasciato le penne, innanzitutto, cordoglio alla famiglia, con il sottofondo del consueto mantra in base al quale nel 20xx (aggiungere anno di riferimento a piacere) non si può morire per una partita di calcio. Come non essere d’accordo? A noi, peraltro, non interessa che lo sventurato fosse un criminale o un santo. Immaginiamo stesse lì, giusto nel mezzo, come la maggior parte di noi, e meritasse di tornare a casa quella sera, né più né meno di me. Quante cose ovvie.

La vera notizia è che queste cose sono sempre più rare, e siamo consapevoli che questa considerazione smorzerà ogni entusiasmo a tutti coloro che, per lo più inconsciamente, godono di fronte a questi fatti di cronaca e, a seconda della loro posizione, pianificano vendetta, giustificano il tutto col fatto che il defunto non fosse un santo, sparano a zero sul fenomeno del calcio, danno la colpa a Salvini o, brillando in originalità, all’intero “Sistema Paese”, mettendoci in mezzo l’imminente pericolo del rigurgito neo-nazista, che dà sempre un buon trend social e smacchia facile ogni coscienza.

Perché ci si mena allo stadio? Per anni ho letto o sentito dire che il calcio, in Italia (stesso dicasi per altri sport mainstream in altri Paesi), altro non sarebbe che un lasciapassare per gli istinti repressi in noi, animali ammaestrati, assopiti da quelle convenzioni sociali che rendono gli umani delle scimmie moderne. È vero, ma lo è solo in parte. Approfondire l’argomento dal punto di vista antropologico non sarà causa di cascate di like, ma aiuta a capire meglio perché si può ancora morire allo stadio e come imbastire una reazione che abbia più senso di qualsiasi decreto d’urgenza.

Partiamo da un dato di fatto. «L’umano è una scimmia, evoluta meno di quanto si creda» (Desmond Morris, La Scimmia Nuda, 1967, Bompiani). I geni che ci caratterizzano sono identici (precisi, sputati) a quelli dell’uomo di Cro-Magnon, consolidatisi 30.000 anni fa, giorno più giorno meno. Quel nostro bisnonno ha combattuto per sopravvivere per mezza era glaciale, da quando si è staccato – per ragioni affascinanti, ma che qui non interessano – dall’avo scimmione. Per sopravvivere e, nel giro di qualche migliaio di anni, conquistare il mondo, ne ha passate di tutti i colori, senza poter più contare sulla protezione degli alberi e passando da onnivoro che si nutriva di bacche e insetti a spietato predatore (per la gioia dei vegani, che proprio non la mandano giù). Come ce l’ha fatta? Facendo gruppo, molto semplicemente. La socialità non è innata, quindi, ma pare si sia radicata nei nostri istinti come risposta a un’esigenza primaria: sopravvivere. Non mi addentro nella questione scientifica, ci si arriva facilmente: in gruppo gli umani hanno saputo compensare alle carenze dei più deboli, assegnando agli stessi compiti più attagliati, imbastendo il concetto di società evoluta con distribuzione degli incarichi. Tutto ciò ci ha portato al predominio sulle altre specie, ma è anche, paradossalmente, il motivo per cui ci estingueremo: il fine originario dell’uso della violenza, del ricorso alla lotta – ossia il predominio territoriale, la caccia, o l’egemonia – si è via via annebbiato nei nostri istinti e, al netto di una ventina di migliaia di anni di evoluzione, ci si attacca e si usa la violenza più per sostenere il gruppo d’appartenenza che per un fine pratico tangibile (“La Scimmia Nuda” – Desmond Morris, Cap. V, pag. 178).

Tutto chiaro? O No? Allora proviamo empiricamente: come italiani siamo spesso critici col nostro Paese. Ma che nessuno attacchi l’Italia, dall’estero, o ci viene la bava alla bocca e diventiamo ipernazionalisti. Troppo nazional popolare come esempio? Riproviamo. La famiglia è spesso fonte di negatività e critichiamo tutti i parenti, nessuno escluso, ma che nessun estraneo attacchi il nostro cognome o uno di noi, le minacce di morte escono da sole che nemmeno te ne accorgi. Non basta? Lo stesso vale per il gruppo della palestra, per quello della marca della nostra macchina, della moto, per la classe del liceo o, esempio sommo, per la nostra città d’origine. Nessuno attacchi Verona, perché il veronese che la critica ogni giorno, anche se espatriato da generazioni, reagirà violentemente. Vi ho convinti, lo so.

Ecco cosa offre il pallone all’italiano generico medio, insieme di cui mi onoro di far parte. Offre gruppo, appartenenza, nutre quella pulsione che ci ha traghettato dai tempi in cui ci annusavamo le chiappe alla civiltà moderna e alla sua droga più potente, lo smartphone. L’uomo, nel gruppo dei tifosi, del tutto inconsciamente, rivive le esperienze che lo hanno fatto primeggiare su tutte le altre razze. Il padre di famiglia, grande lavoratore, quando è nel gruppo degli ultras non si trasforma, ma TORNA alla sua radice, alla sua essenza, all’uomo di Cro-Magnon. Non ne sente la necessità, nella maggior parte dei casi, nella vita di tutti i giorni, ma ne è attratto inconsciamente. Quando vi si trova in mezzo, torna animale o, meglio, palesa l’animale che è. Lo dice la scienza e, a meno che uno non sia No Vax, laureato all’università della vita, ci deve credere.

Ma torniamo all’incipit: ci sono stati degli scontri, è morto un tifoso, eppure sono accadimenti sempre più rari. Il perché è molto semplice e ha un nome: “DASPO” (Divieto di Accedere a manifestazioni Sportive). Introdotto nel 1989 dal Governo Andreotti – recependo apposita Convenzione Europea – ha subito diverse modifiche, le più importanti delle quali sotto Berlusconi (2005) e Prodi (2007). Legge piuttosto complessa, politicamente trasversale, non fa notizia perché funziona, quindi non ne parla nessuno. Riassumendola, per questioni di sintesi, recita così: se fai il biricchino allo stadio non vai in gabbia, non paghi multe, ma semplicemente non vai più allo stadio, per anni, anzi per tanti anni. Di conseguenza fai “gruppo”, e dai sfogo ai tuoi istinti primordiali (in quanto tali ingovernabili), solo con quelli della terza C o, al massimo, se difendi zia Assunta alle cene di Pasqua dagli attacchi della vicina invidiosa.

Non è finita. Con gli anni i vari governi hanno assecondato tale onda antropologica, intuendo che lo Stadio è come la Savana. Se la preda si nasconde, il predatore non mangia. Ed ecco che, nel tempo, il tifoso non ha più trovato il nemico numero uno del suo gruppo: le Forze dell’Ordine non entrano più in curva, o sul terreno di gioco, ma restano ben nascoste, pronte a intervenire solo se serve (per i criticoni della domenica o i politici improvvisati, consiglio di leggere l’art. 1 della Testo Unico sulle Leggi di Pubblica Sicurezza per la giustificazione legislativa della presenza degli sbirri allo stadio). Lo Steward non ha più il contatto diretto all’ingresso, ma ha barriere nel prefiltraggio e tornelli al filtraggio. È inoltre istruito su obblighi e diritti, addestrato a essere sorridente e, prima di fare i controlli, chiede gentilmente il permesso. Il tifoso, di conseguenza, viene incanalato, perde il contatto col gruppo, subisce un controllo cadenzato, soft, e non trova nemico. Non si fanno più le vagonate di ultras, tra l’altro, che facevano da cassa di risonanza alle pulsioni selvagge. Tutti per entrare vengono identificati, filmati, e hanno un posto assegnato: se succede qualcosa all’interno dello stadio, DASPO e ciao.

Ebbene sì, sta funzionando. Nel 2016/17 solo il 14% delle partite sono state giudicate a rischio (fonte: Osservatorio del Ministero dell’Interno) e gli scontri, soprattutto quelli con feriti, ridotti a un numero minimo, da considerare fisiologico se pensiamo che ci si mena anche al supermercato per il parcheggio, perché bestie siamo e bestie rimaniamo. Il trend può ancora migliorare, se si prosegue, in altri ambiti, col la linea tracciata dalla Juventus, ad esempio. Nel costruire lo stadio di sua proprietà, la vecchia Signora ha seguito l’esempio anglosassone, privandolo di barriere con il campo e tra tifosi. La gabbia, del resto, imbizzarrisce la bestia, inglese o italiana che sia. La libertà di movimento non ha portato a invasioni o tafferugli  particolari, guarda un po’.

Ferruccio Taroni

Nel silenzio di chi si indigna e spara sentenze solo se si nomina Salvini, tanti enti specializzati lavorano nella giusta direzione. È il caso dell’A.N.DE.S (Associazione Nazionale Delegati alla Sicurezza), con sede a Verona (www.associazioneandes.it). Ferruccio Taroni, che la presiede, oltre a essere il Responsabile della Sicurezza del Chievo – probabilmente la Società Sportiva professionistica che ha causato meno grattacapi di sempre a chi gestisce l’Ordine Pubblico – predica da anni la filosofia dell’Accoglienza allo stadio, inculcandola nei ragazzi che lavorano per lui o che forma per lavorare in tutti gli stadi d’Italia, a vario livello. Taroni ha dichiarato, in reazione a recenti fatti di cronaca in Italia e all’estero: «Il problema della violenza e quindi della necessità di una maggiore cultura del rispetto nel mondo del calcio esiste in tutti i Paesi e oggi più che mai è necessario lavorare sulla prevenzione dei fattori più pericolosi. Su questo fronte A.N.DE.S da sempre si muove in questa direzione, nella convinzione che la sicurezza negli stadi parta da una maggiore sensibilizzazione alla cultura del rispetto dei protagonisti del calcio, sia in campo che sugli spalti».

Che meraviglia. Qualcuno che parla di cultura nel mondo del pallone. Non sembra vero. È grazie alla cultura, del resto, che capiamo perché il tifoso fa (ancora) la scimmia, talvolta. Ma è soprattutto grazie alla cultura stessa, quella condivisa, inculcata negli anni, con passione, ai vari livelli, che possiamo imparare ad ammaestrarlo.