La legge del mercato internettaro prevede velocità efficienza e reattività, un giorno di ritardo e sei fuori, sei “old, babbo!”. Ecco quindi che a ogni avvenimento, alla ricerca e analisi degli elementi oggettivi, si preferisce una soluzione che non prevede sforzo. Si decide chi è il colpevole senza processo, si prende una posizione indipendentemente dalla logica, a volte solo per copia-incolla acefalo. Salvo poi difendere con incredibile aggressività questa posizione come fosse propria. Complici i vituperati e adorati social media, gli schieramenti prendono la connotazione del tifo da stadio, con i sostenitori dell’una e dell’altra tesi, a contendersi la ragione, a suon di mazzate e insulti, come ne dipendesse il proprio e umanitario futuro.

Da parte mia, forte della cultura veronese che vuole la ragione appartenere ai mussi, cerco sempre di non cadere nella tentazione, con alterne fortune. Ho imparato, dopo aver sbattuto contro tanti di questi mussi, a trattenermi dall’esprimere un’opinione su un tema che non conosco bene, di cui non ho seguito le vicende o che mi tocca nel profondo condizionando il mio giudizio. Il mio ascetismo è arrivato al punto di non pubblicare neanche sugli argomenti di cui so tutto o quasi. Distacco, nirvana.

Più dura è astenermi dal rispondere con ironia ai post palesemente ignoranti, forniti dopo prolungata lettura della spiegazione trovata su Google. E non si prendono nemmeno la briga di far proprio il testo, evitano con cura il trucco dei sinonimi e contrari: esprimono l’opinione con la definizione di Wikipedia, riconoscibile per il fatto che sono dieci parole senza errori. Ieri ho dissato (cioè “beccato, preso in giro”, nda) una persona che invocava la querenza, peraltro su un argomento in cui la coerenza serve a poco niente. Ho dovuto, mi capite, consigliare un Devoto-Oli, ché sapere il significato della parola di solito aiuta, nella discussione intelligente, se ne incontrasse una.

Gli ambiti di questo “schema Ponzi” da me ribattezzato in “schema gonzi”’ sono illimitati: dai vaccini agli omicidi, dal terremoto agli arbitri di calcio, da pandoro vs panettone (#teampandoro rulez!) alla legge di bilancio. Non importa l’argomento, il come si ripete pedissequamente. C’è però un’eccezione in cui il ridicolo non viene solo sfiorato, ci si fa il bagno dentro con tutti i vestiti: quando gli adulti commentano qualcosa che riguarda i ragazzi.

Oltre ai normali sbuffi di ignoranza e chiusura mentale tipici dello “schema gonzi”, si rivela una distanza culturale sfuggente alle misurazioni. Non si tratta di matematica di terza elementare che o la sai o la ignori, qui si parla di filosofia applicata alla poesia romantica con due gocce di ragioneria. I teenager vivono in un mondo parallelo, che sfugge alle regole astronomiche galileiane e adotta i principi della fisica di “The Big Bang Theory” ma che si interfaccia al nostro, di tanto in tanto, per tentare una comunicazione. “E.T. telefono casa” è stato sostituito da “Ehi zio, troppo bella la tua nuova skin”. Roba da gamers, non potete capire; avrete però ormai notato la mia stupefacente padronanza dell’idioma giovanile – dove stupefacente non è un aggettivo messo a caso, si sa le porte della conoscenza si spalancano con quella chiave – e vi starete domandando perché e soprattutto percome.

Io ci parlo, con i ragazzi, ma soprattutto li ascolto. Per colpa e merito di un particolare teenager che ho personalmente prodotto, sono da sempre circondata di ragazzi della sua età, con i quali ho un dialogo sereno e aperto (cioè, aperto quel tanto che di volta in volta si renda utile, comodo o funzionale a uno scopo – ma questa è un’altra storia). Loro parlano, io ascolto. Mi dicono cose che non direbbero alla loro mamma perché io non giudico, comunico la mia opinione e come mi comporterei io ma non gli dico cosa fare. Una volta uno di loro mi disse: «Eh, ma tu sei una mamma figa perché ascolti e capisci». Caro bocia, grazie per il complimento che mi ha fatto sentire di nuovo trentenne ma tu non hai idea di quello che sto facendo veramente.

Ascolto e imparo. Studio le parole, i silenzi, le facce buffe. Da linguista innamorata, colgo (e racconto, quando hanno voglia di sentire) l’origine della parola assurda che ho appena sentito, spesso una violenza all’inglese, altre volte gergo tribale veronese. Per me è facile e divertente, ancor di più quando vedo negli occhi dei ragazzi una scintilla di interesse, divertimento. Raggiungo una sorta di orgasmo umanistico quelle rare volte che mi rispondono con un collegamento a un’altra parola o argomento simile in cui succede lo stesso giochino.

I ragazzi sono e restano bestie incomprensibili se non si applica un minimo di apertura alla novità. Rinchiudersi nei meravigliosi “miei tempi” e giudicare i loro comportamenti dall’alto (o basso) di una vita ormai passata, di una formazione educativa, culturale e relazionale totalmente diversa non aiuta certo a comprenderli. Per i ragazzi del duemila, la concentrazione è multilivello e ridotta ai minimi, gli avvenimenti durano solo un giorno e poi vengono sostituiti da un altro “trend topic”. Non a caso usano l’espressione stupenda “Ehi zio, hai vinto l’internet oggi”. Nel doman non c’è certezza, e nemmeno gloria a quanto pare.

Hanno l’età dell’incoscienza, aiutati a godersela da genitori che a suo tempo vi rinunciarono, in nome del lavoro e dell’ambizione. Non sono, o almeno non tutti, dei buoni a nulla senza spina dorsale. Sono le prime generazioni che possono beneficiare del duro lavoro delle precedenti per creare proprio per loro un futuro migliore. Se li etichettiamo come fannulloni senza ambizione, stiamo soltanto dimostrando la nostra invidia, noi che alla loro età avremmo voluto fare le stesse meravigliose cazzate, credere negli stessi effimeri miti ma abbiamo potuto farlo (lo abbiamo fatto, ricordate?) solo fino a un certo punto.

La morte insensata di quei ragazzi al concerto del trapper mi ha colpito molto, perché quella mamma avrei potuto essere io. Quella mamma in effetti sono stata io, mi sono trovata in tante serate nella stessa condizione e lo farò ancora in futuro (almeno finché me lo concede il mostro). Mi ha uccisa ancor di più la facilità con cui la rete si è scagliata contro o a favore di questo e di quello: non c’erano in questo caso due schieramenti, ma almeno dieci. Quelli che ma guarda te la sicurezza del locale e i politici che sponsorizzano gli spray da difesa; quelli che ma se vendono mille biglietti in più poi succedono ste cose; altri ancora che i genitori sono troppo permissivi e infine quelli più idioti, a dire che la nuova musica senza valori distrugge i ragazzi, e poi e via così in un’iperbole di assurdità senza tenerezza. Ribaltare sui ragazzi e sulla loro musica le colpe di una tragedia come ne potrebbero accadere cento ogni weekend è talmente inutile e dannoso da sfiorare la cattiveria pura. Non è la musica o i testi sgrammaticati e opinabili delle canzoni a uccidere. Lo so per certo, metodo scientifico.

Se davvero il testo di una canzone o la ritmica potessero influire sulle azioni di chi la ascolta, indurre a comportamenti imitativi, saremmo tutti morti.

Senza andare troppo nel dettaglio delle mie approfondite ricerche sull’argomento, voglio solo ricordare alcuni esempi. La donna cannone, quell’enorme mistero volò – dice de Gregori – ma senza apparenti effetti sul numero di casi di suicidio. Quando Clapton, racconta le magie della polverina bianca, con il suo ipnotico “la coca non mente” (“she don’t lie, she don’t lie, she don’t lie, cocaine”) non è che fa pubblicità ai narcos. E mi viene in mente quando tutti in Italia ballavamo guancia a guancia sulle note di una dolce canzone dei Police, quella “Every breath you take, I’ll be watching you” (“sorveglierò ogni tuo passo”) che è in effetti la prima denuncia di stalking e di violenza domestica.

Siamo chiari: chi insulta la musica trap e i suoi contenuti sonori e sigh! visivi, ha ragione. Sono d’accordo. È robaccia inascoltabile per chi ha nelle orecchie il ritmo incalzante dei Rolling Stones e la loro Paint it Black (che parla di depressione, tra l’altro). Siamo su pianeti in orbite parallele, con velocità diverse e uno dei due sta per esplodere. Insomma, no ghe semo. Ma dalla trap alla trappola il passo è brevissimo.

I miei genitori, cresciuti con il rock ‘n’ roll di Jerry Lee Lewis e Celentano non capivano le derive psichedeliche dei Doors o il punk assurdo dei Ramones che ascoltava mio cugino Giorgio. E lui rideva delle sonorità cotonate della new wave inglese che amavo da piccola. Il punto è che lungi dallo strafarci di coca mentre picchiamo la morosa per poi buttarci in un fiume sotto il temporale, siamo tutti diventati grandi, adulti e tutto sommato felici. Certo, nel tempo abbiamo rinnegato alcune scelte, perseverato in altre e scoperto tendenze e gusti nuovi; ma non siamo stati rovinati dalla nostra musica. Anzi.

Di Boss non ne nascono ogni giorno, di personaggi capaci di restare sempre uguali pur cambiando e di innovare invecchiando, autori profondi e morali, che prendono a schiaffi la tristezza accettandola come parte della vita. Scappando senza mai arrendersi, come dicono due dei suoi pezzi che amo di più. Ci fossero stati più Boss, posso immaginare che la mia fantasiosa teoria avrebbe trovato un’ulteriore svolta. Non solo la nostra musica non ci distrugge, la nostra musica ci può fare bene – qualunque essa sia, perfino il contrario della musica, l’autotune della trap –. La nostra musica ci può salvare.