E’ notizia di questi giorni l’approvazione del Decreto Sicurezza, intervento fortemente voluto dal Governo, sia perché posto al centro della campagna elettorale, sia soprattutto per restituire quanto prima un forte segnale di operatività agli elettori, estremamente sensibili al tema sicurezza. Non intendiamo approfondire pro e contro di questo Decreto, ormai diventato Legge, ma quanto esso sia l’emblema di una strategia che ha esiti ben più ampi di quanto la norma stessa intenda perseguire e alla cui base c’è un evidente equivoco lessicale. Il meccanismo è uguale ogni volta: si introducono termini semplici, li si utilizza ripetutamente come un mantra snaturando i significati di quelle stesse parole, di fatto confondendo il cittadino che perde completamente ogni bussola interpretativa di quanto gli accade intorno.

Il termine “sicurezza” non solo è centrale per contenuti nel Decreto, ma ne diventa protagonista assoluto: è nome, è titolo e slogan stesso del Decreto, è come un grande striscione esposto allo stadio che diventa coro dei tifosi. Occorre, però, comprendere al meglio cosa significhi sicurezza: è, infatti, proprio intorno al suo significato che a mio modo di vedere nasce l’equivoco.  Consultando un dizionario, gesto forse ormai vintage e anche un filino radical chic, ognuno di noi in un istante riesce a verificare come la parola sicurezza faccia riferimento ad una condizione che “…rende o fa sentire esenti da pericoli…”; il che significa che la parola sicurezza dovrebbe restituire la certezza o quantomeno la percezione di un rischio zero. La questione centrale, quella che scatena l’equivoco, è che certezza e percezione non sono affatto la stessa cosa e il Governo sa bene che utilizzando la parola sicurezza non è tenuto a garantire al popolo rischi nulli.

Il cittadino, invece, come si pone? Che chiavi interpretative adotta? Dopo anni in cui la sicurezza è entrata stabilmente nel nostro lessico e in ogni ambito della nostra vita, dal lavoro, alla sanità, alle scuole, al pubblico, ai trasporti, oggi il cittadino ha imparato a equiparare il concetto di sicurezza con l’assenza di pericoli, pretende di diritto sicurezza assoluta, è letteralmente affamato di sicurezza per se stesso e i propri familiari. In sintesi: la vuole ad ogni costo. D’altronde ormai da troppo tempo il mantra della sicurezza è il cuore della comunicazione sui social e sulla stampa e la Lega lo ha utilizzato con costanza incrollabile, facendoci ormai dimenticare come fosse la nostra bella Italia prima che ci sentissimo tutti molto insicuri (percezione che non corrisponde alle serie storiche dei reati commessi su territorio italiano). Oggi abbiamo minori pericoli intorno a noi, ma ci sentiamo profondamente insicuri e pretendiamo rischi zero. Il paradosso è che proprio nel periodo storico in cui più dovremmo essere soddisfatti dell’accresciuta sicurezza, ci sentiamo insicuri: è il mantra, è l’equivoco che emerge in tutto il suo vigore e questo Decreto è emblema e apice di una specifica strategia politica e comunicativa.

 La questione centrale e profondamente diseducativa, però, non è da ricercare nelle pieghe del Decreto e nemmeno nelle strategie di accoglienza verso migranti e richiedenti asilo che l’Esecutivo sta attuando con il benestare della maggioranza del Parlamento. La questione è molto più ampia ed è culturale: invocare alla sicurezza, riunire il popolo per uno Stato sicuro, senza aver offerto le giuste chiavi di lettura di cosa significhi realmente sicurezza, del fatto che il rischio zero non possa essere di questo mondo qualsiasi ambito si osservi della nostra vita quotidiana, modifica strutturalmente le aspettative dei cittadini che sempre di più risulteranno intolleranti verso una sana gestione del rischio e ancor di più nel sopportare eventi infausti. Garantire sicurezza significa avere nel futuro cittadini intolleranti alle insicurezze e soprattutto incapaci di avviare percorsi anche personali volti alla riduzione dei rischi. La sicurezza assoluta, affermiamolo con enfasi, non è un diritto divino; certamente ogni Stato, anche il nostro attraverso i principi costituzionali, si pone l’obiettivo di tutelare i propri cittadini, ma non è tenuto per legge e non è nemmeno in grado di garantire la sicurezza assoluta. Ridurre i rischi è, infatti, primariamente compito del singolo cittadino perché non tutto può essere demandato allo Stato o ai carabinieri o a qualsiasi altro corpo operante a tutela del cittadino; ognuno di noi è parte attiva e protagonista del percorso che ci porta ad un corretto rapporto con il tema sicurezza: la formazione, l’educazione, la conoscenza dell’ambiente circostante e dei suoi rischi intrinsechi, l’esperienza che si può acquisire solo con l’esposizione continua a rischi calcolati, sono gli elementi principali di questo percorso. Sbandierare sicurezza per tutti significa viceversa far credere ai cittadini che tutto sia dovuto, che esporsi ai rischi, quando stimati, quando si è preparati ad affrontarli, sia comunque un comportamento da rifuggire.

Pensiamo nella crescita di un bambino, quanto sia importante che viva diversificate esperienze in ambiente protetto, con una buona dose di rischio calcolato, quanta sia inoltre la spinta motivazionale che il bambino stesso acquisisce sentendosi padrone di un’azione potenzialmente pericolosa (es: camminare in equilibrio su un marciapiede). Oggi invece, nel nome della sicurezza assoluta, stiamo cambiando la cultura dei cittadini che non sentono più lo stimolo di camminare sul marciapiede in equilibrio, per rimanere in metafora e, se proprio si spingono fino al provarci, pretendono che lo Stato a quel punto li assista passo dopo passo, che elimini ogni rischio di inciampo o caduta. Come si può ben comprendere non è più una battaglia pro o contro i migranti, il Decreto Sicurezza rappresenta molto di più, rappresenta uno Stato che illude i cittadini su una sicurezza garantita, li invita a pretendere sicurezza, addirittura qualcuno ormai estensivamente arriva a pretendere salute eterna, senza peraltro che nessuno agisca nel proprio individuale quotidiano per migliorare le proprie esposizioni al rischio.

La conseguenza di questa tendenza culturale è sotto ai nostri occhi quotidianamente: i tanti escursionisti sorpresi a camminare in scarpette ginniche in ghiacciaio e assolutamente incoscienti dei rischi che tale comportamento produce ne sono un esempio lampante. Ignorano i rischi delle loro azioni, non sono culturalmente formati per questo, ma si sentono sicuri e invincibili perché conoscono i loro diritti alla sicurezza e sanno che il Soccorso Alpino che eventualmente interverrà in loro aiuto, dovrà farlo. Sembra paradossale, e senza dubbio lo è se si ragiona poi sul fatto che si preferisca discutere di limitare l’accesso alle montagne (proibizionismo nel nome della sicurezza) invece di sensibilizzare e formare gli escursionisti occasionali (prevenzione dei rischi).

Chiedere sicurezza, pretenderla, metterla al centro dell’agire politico e sociale è una tendenza culturale in atto ormai da alcuni anni, il Decreto Sicurezza ne è parte integrante. Che la sicurezza sia un primario obiettivo a cui tendere, oppure mito o forse inganno, ad ognuno la sua personale risposta.