Devo essere giunto in quella parte del cammin di nostra vita in cui le radici si sono piantate talmente a fondo che nessun colpo di vento può davvero impensierire il fusto. Curiosamente, di solito, quell’età corrisponde al momento in cui un fusto non sei più, ma le suddette radici ti aiutano a rimanere in piedi al netto di tale consapevolezza.

Quelli della mia generazione, per capirci, sono quelli che hanno faticato a passare agli sci sciancrati, alle macchine fotografiche digitali, agli smartphone, ai social network e tutte le altre novità del nuovo millennio. Alla fine l’hanno fatto, con il giusto ritardo, mantenendo comunque una parvenza di dignità. Non è facile, ci vuole un certo stile, ci vogliono le radici, per l’appunto.

A tal proposito, mi sono improvvisamente convinto, qualche tempo fa, che fosse ora di capire cosa è il TRAP, dato che ne parla chiunque. L’ho evitato per mesi, inconsciamente, ma nella vita ci vuole coraggio.

Gugol dà una mano, come sempre, e come risultato della prima ricerca volante spiattella una serie di nomi, italiani e non, corredati da immagini. Nomi che non conosco, guarda un po’. Prima impressione: “ammazza che brutti, ahò”. Ma è invidia, in linea di massima, lo so, quindi cerco di essere oggettivo. Mi appaiono facce di ragazzini o poco più, le caratteristiche comuni sono tatuaggi invadenti e privi di significato immediato, pettinature improbabili e il piglio tipico degli artisti mainstream da migliaia di dischi venduti, un tempo, da milioni di like, oggi. I miei percorsi mentali aprono i cassetti della memoria storica, e provo a instillare un brivido di ottimismo rievocando la rivoluzione Punk degli anni ’70, per certi aspetti similare. Il brivido non arriva.

Achille Lauro

Tocca quindi passare all’ascolto, ma dopo settimane di appassionata dedizione volta all’ammaestramento dell’algoritmo di Spotifai (altra goduriosa diavoleria moderna cui ho ceduto da pochissimo), non posso correre il rischio di imbastardirlo. Sono scettico, lo ammetto, quindi scelgo lo strumento di YouTube, con il quale mi destreggio da un bel po’ (summo cum gaudio), per altro lo stesso che ha donato celebrità alla maggior parte di loro. Il fato cibernetico mi propone un certo Achille Lauro, non scherzo eh, proprio come il celebre traghetto. Prima del video parte un annuncio, siamo sulla strada giusta. La fotografia del video è di altissimo livello, quindi ci sono dietro professionisti, produttori, soldini in abbondanza.

Provo a non commentare quello che ascolto. Vende, piace, attira like, quindi è specchio di un mondo di cui mi sento ancora protagonista. Passo oltre: tale Tedua ha la stessa faccia incazzata, occhialoni simili, meno tatuaggi, dice di essere venuto dalla strada, con lo stesso effetto voce del suo collega di prima, quello dei traghetti, che fa tanto “Eifell 65”, un gruppo che per un po’ ha venduto un po’ e cui io, quando ero ragazzino, non potevo mettere like (per fortuna).

Passo un attimo al bagno, capita, e intanto la base campionata con bassi sostenuti, BPM sui 130 e trame melodiche da game boy scorre in lontananza. Al ritorno faccio la conoscenza di un certo Vegas Jones: macchinone, top model, tatuaggi, lui incazzato con gli occhiali e collanona alla “50 cents”. I bassi sono gli stessi di prima, la ritmica idem, probabilmente qualche tastierista ci ha messo mano schiacciando un paio di tasti, ma non ci giurerei. I movimenti che fa lui sono rivoluzionari e mi rimandano direttamente a quelli delle crew di rapper che a partire dagli anni ’80  hanno iniziato a imitarsi a vicenda con caparbietà.

Vegas Jones

Mi fermo qui col trap, e chiedo scusa. Solo tre “artisti” non bastano, me ne rendo conto, quindi non ne parlo male, sarei poco credibile. E’ un fenomeno, va preso come tale. Mi rifugio in un amniotico silenzio e leggo qua e là, perché sono tignoso e voglio capirci di più. La differenza tra rap e trap, pare stia nei temi trattati, tendenzialmente meno di protesta per la seconda corrente. L’emersione, poi, da una parte passa da una gavetta estenuante, dall’altra dal numero di like, condivisioni o simili. I rapper, negli anni, hanno formato delle correnti ben determinate, unioni artistiche solide, i colleghi più giovani lavorano tendenzialmente da soli.

Al termine di una decina di giorni di analisi non così distratta (ho preparato e superato esami in meno tempo, per la cronaca), credo di poter tirare delle conclusioni mie, supportate dall’azzardo di aver messo spesso la radio in sottofondo, imponendomi di non cambiare mai stazione, nonostante talvolta sia stato proibitivo, come quando un certo Gazzelle mi raccontava che sta bene sotto, cantando senza saperlo fare.

Il trap è un rap in cui i contenuti sono meno importanti, perché maggiormente basato sull’apparenza. Vi è protesta e denuncia sociale, ma certamente più sfumata, perché proveniente spesso da gente che si è affacciata alla vita da poco più di un quarto d’ora. E’ proposto da soggetti che hanno le palle (va detto) senza paura di esporsi, pur senza poter contare, spesso, su alcun tipo di talento artistico classico.

Sfera Ebbasta

Quando avevi molte cose da dire e le sapevi mettere giù discretamente, potevi ambire alla scena hip hop, che a partire dagli anni ’80 si è ritagliata, con caparbietà, un ruolo di tutto rispetto tra le correnti artistiche d’oltreoceano, da noi mutuate senza vergogna (e con risultati altalenanti). Spesso costoro, soprattutto nelle frange più recenti del movimento, provvedevano se non altro ad affidare un ritornello a qualcuno in grado di cantare, almeno vagamente, giusto per attirare quella parte di pubblico addestrata dal pop a cercare melodie orecchiabili e consolatorie. Ora, invece, pare non serva nemmeno più: sdoganato dall’unica regola della rete, ossia la mancanza di regole, un ragazzo con tatuaggi e con un po’ di voglia di investire sul poco che ha di nuovo da dire, può emergere anche lanciandosi personalmente in improbabili iperboli canore, purché parli di ciò che può portare un essere umano di età compresa tra i 9 e i 12 anni a poggiare un pollice sul cuoricino che appare su uno schermo. Puoi anche emettere suoni senza senso compiuto e fare linguacce, se i cuoricini e le condivisioni  diventano tante, parte il meccanismo diabolico del web e il gioco è presto fatto: soldi, visibilità, fama, evviva.

Fatico a non apparire critico, me ne rendo conto, ma almeno ci provo. Se la TRAPpola del web si attiva in questo modo, se emeriti sconosciuti che con non hanno mai toccato uno strumento si arricchiscono così e fanno girare la giostra dei produttori, delle case discografiche, dell’industria della musica e dei tatuaggi, onori al merito. Che i Dark Polo Gang (vestiti come Mork, vengo da Ork) riempiano il Forum di Assago mi sorprende, lo ammetto, ma gioca un ruolo fondamentale la suddetta, sana invidia. Alla radio ogni tanto qualche frase buona l’ho sentita, devo ammetterlo, e chi emerge in questo modo alla fine qualcosa ce l’ha, lo ha detto anche Patty Pravo, recentemente, quindi zitti tutti.

Provo, in conclusione, a sottolineare l’aspetto di questo fenomeno che maggiormente mi ha colpito. Dopo averlo evitato, per istinto, mi ci sono scontrato, con tutte le corna che ho. L’effetto più immediato è stato totalmente positivo: “artisti” che consideravo in qualche modo inferiori (non me ne vogliano), se non altro come spessore, comparato a quello delle vecchie generazioni che mi hanno insegnato la musica, improvvisamente mi appaiono delle divinità. Gente che sa cantare, intonata, mi commuove, ora. Loro usano musicisti per incidere. Pazzesco. Faccio nomi? Emma, Scanu, Errore, quelli dei talent per capirci, li vedo sotto un’altra luce. Noemi, che canta di brutto, per di più sa suonare, uno strumento di quelli veri. Sembra incredibile eh? Zampaglione, quel tizio che descriveva l’attimo e poi si è perso, chitarra e voce non è niente male, tutto sommato.

Daniele Silvestri performing live at the Collisioni Festival 2017.

Uno come Daniele Silvestri, che era già alto in classifica perche scrive, canta e suona divinamente, è contestualmente transitato nella categoria riservata agli immortali, quindi sono corso a fare una foto mentre attraverso le strisce pedonali sotto casa sua. Lo scrivo sottovoce, ma perfino JAx (eccelso paroliere), assurge a totem del vecchio modo di intrattenere pur non sapendo cantare, anche se a sua volta ha iniziato a farsi da solo i ritornelli, con risultati trap.

Questa interpretazione positiva non è una grande notizia? Se continua così finirà che andrò a vedere un concerto di Motta (scherzo).

Concludo, altrimenti mi devono pagare troppo. Io ho il vizio di ricercare, nell’arte, la prestazione. Non necessariamente quella da Guinness, chiaro, ma un minimo sì, dai, non se ne può prescindere. Non tutti i maestri di conservatorio sono rock star, e per fortuna, ma questo è un discorso vecchio più di me, quindi cambio allegoria. Uno per giocare a calcio, un pallone lo deve saper stoppare, no? Altrimenti cambia sport e non va a fare figure di marmellata in mezzo a un campo, nemmeno quello della parrocchia. Col TRAP, invece, abbiamo uno stadio pieno di gente che osanna dei ragazzini scaltri, abbronzati, con gli occhiali da sole anche di notte, convinti di giocare la finale della coppa del mondo ma che non sanno fare nemmeno due palleggi.

Laddove questa cosa non ci piacesse più, e volessimo tornare alla musica fatta da musicisti e cantata da cantanti, io ho la soluzione: chiudiamo le porte dello stadio ai minori di 12 anni, e i campioni del Trap giocheranno da soli.

L’autore dell’articolo, Vito Franchini, in un selfie insieme a Emma Marrone