I Måneskin, vestiti da Achille Lauro, vincono e dimostrano che anche la trasgressione deve avere un contenuto. Altrimenti è solo baraccone.

Il “complottone”, invece, sfiora solamente la vittoria. La combo Fedez & Michielin arriva ad un passo dal successo ma a trionfare sono l’energia e quel poco di rock che questo Festival ci ha saputo regalare.

Vado con la cronaca anche se, dopo una settimana di battutine, giuro che non è facile mettersi qui a trovare altre punzecchiature. La serata finale, poi, parte a dir poco col freno a mano tirato.

Butto l’occhio su facebook e trovo uno di quei talebani del qualunquismo che paragonano immagini di bambini distanziati con quelle dei cantanti abbracciati sul palco. Fino a ieri ce l’avevano coi calciatori, domani avranno già trovato una nuova Bibbiano per la quale indignarsi.

A 86 anni voglio essere come Ornella Vanoni. Annebbiato, cinico ma ancora in grado bloccare un teatro. Devo solo imparare a cantare.

Più la ascolto e più mi convinco della canzone di Bugo. Chi sostiene che non sappia cantare l’ha evidentemente scoperto l’anno scorso; Bugo non ha mai saputo cantare. Eppure era indie prima che per farlo servisse indossare discutibili giacche fuori taglia ed era elettronico prima dell’autotune. Lascia che dicano Christian, io faccio outing: io mi Bugo.

«Ognuno di voi può essere Zlatan. Voi tutti siete Zlatan». Sorride perché non ci crede nemmeno lui. Però la musichetta balcanica con cui l’hanno fatto entrare per tutta la settimana è già la suoneria del mio cellulare.

Dopo uno spot pro-Liguria da far tremare i polsi, tocca ad Achille Lauro. Ieri sera ho rivisto qualcosa del ragazzo con cui ho scambiato un paio di considerazioni due anni fa. Se le sue esibizioni fossero queste, avrà sempre il mio appoggio. Può piacere o meno, si potrà discutere sulla qualità, ma il farsi introdurre dalle registrazioni delle critiche che gli hanno rivolto è oggettivamente una gran presa. Quanto visto fino a venerdì, invece, non aggiunge nulla ad un qualsiasi dibattito. Anzi, ha il solo effetto di giustificare l’esistenza e gli sproloqui di soggetti come Pillon. E pure questo è oggettivo e imperdonabile.

Alberto Tomba davanti alla telecamera ha sempre la stessa fluidità di Alex l’ariete.

In un anno normale il medley di Umberto Tozzi avrebbe trasformato la sala stampa nel sambodromo di Rio. E invece è solo tremenda nostalgia di fare una serata allo Skylight.

Lo Stato Sociale sono le Sardine del Festival. Un girotondo casinaro e colorato che dura lo spazio di un pomeriggio primaverile in terza superiore.

La tripletta sul podio è la consacrazione del televoto via sms e delle fanbase. La rivoluzione underground, invece, è fallita. Cadono, nell’ordine: Coma_Cose, Fulminacci, Colapesce e Dimartino. Il subcomandante Willie Peyote porta a casa il Premio della Critica, ma c’è delusione nella truppa.

Io mi fermo qui. Commentare Sanremo è come gettarsi in una tonnara impazzita dove alla fine si finisce per sentirsi in competizione con mezzo mondo. Da domani, si torna al mood qui sotto.