Reflect, diretto da Hillary Bradfield, è il recente corto della Disney che vede come protagonista Bianca, ballerina appassionata alle prese con la propria immagine riflessa in uno specchio e con quanto emerge dal riflettersi in essa.

Non si tratta solo di un tentativo di rompere gli stereotipi legati al corpo e alla sua bellezza ma anche del desiderio di restituire un peso alla vera e autentica immagine di sé al di là del corpo, con il corpo. Ed è  proprio il difficile viaggio che attraversa lo stereotipo che lo rende visibile e conosciuto.

Anche se estremamente lontano, non solo nel tempo ma per tipologia di film, un pensiero vola ad Atreyu, il coprotagonista della Storia Infinita, e al suo viaggio alla ricerca di sé.

In particolare torna alla mente la prova della Porta dello Specchio Magico, la più difficile perché costringe non solo a stare di fronte a se stessi, a guardare il riflesso dell’immagine reale del proprio mondo interno ma soprattutto perché questa immagine va attraversata; ciò terrorizza perché “chi va verso sé stesso rischia l’incontro con se stesso”

La straordinaria semplicità di Reflect cela l’altrettanto straordinaria complessità dei vari meccanismi psichici che si attivano quando ci imbattiamo nell’immagine che del nostro corpo il mondo ci restituisce. 

In pochissimi minuti lo spettatore, insieme a Bianca, viene catapultato in un viaggio dentro all’immagine della piccola protagonista riflessa da uno specchio. Ma è proprio questo riflesso che le permette di fare i conti con la paura e lo smarrimento che procura l’essere dentro di sé, riflessa  e quasi imprigionata ella stessa in uno stereotipo interiorizzato.

Ma così lo può vedere, e può cambiare prospettiva: non più solo dal fuori al dentro di sé (dall’immagine nello specchio (società, stereotipo) con tutte le conseguenti possibili ferite che questo può provocare) ma anche da dentro al fuori da sè.

Bianca passa attraverso la frammentazione, quasi ossessiva e angosciante, dell’immagine di sé che lo stereotipo le restituisce e la supera con un gesto semplice e delicato come è quello del chiudere gli occhi e raccogliersi nel proprio corpo, affidandosi ad esso, a quello che già sa e soprattutto sente.

Continua a ballare per liberarsi dall’immagine condizionante e ritrovarsi di nuovo in un’immagine, al di qua dello specchio, questa volta integra e riconosciuta. Ora si vede riflessa così com’è, senza il peso, la forma e la dimensione  dei pregiudizi. 

Distogliere lo sguardo dal “fuori” e volgerlo su di sè, passare da un’immagine riflessa ad una riflessiva, vedersi da una prospettiva interna, le permette di affrontare le ferite che gli stereotipi causano e di usarle come feritoie per riscoprire una dimensione corporea non più vissuta nella sola forma ma soprattutto nel suo sentire emotivo.

Molte volte inciampiamo in modelli di pensiero fissi e imposti da luoghi comuni di cui non ci accorgiamo ma che vanno a stratificarsi nella profondità dell’animo creando un effetto onda che colpisce varie parti di sè. Strato dopo strato, onda dopo onda, in un certo preciso istante qualcosa si rompe, si frammenta, e spinge oltre alla propria immagine reale confondendola con quella ideale e stereotipata che, invece, appare angosciante e talvolta mostruosa, da combattere.

Possiamo venirne distrutti o possiamo interiorizzarla in modo diverso, facendone trampolino di lancio per far volare, o danzare, le proprie risorse interne.

Possiamo così sentire lo stereotipo, nominarlo e romperlo per andare verso il nostro Sè autentico e la sua immagine reale, fatta sì di luci e di ombre ma sicuramente libera di essere quella che è con il proprio posto, la propria forma e dimensione.

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