Mancano pochi secondi al 47esimo del secondo tempo. È un pomeriggio di primo autunno e, al Rigamonti di Brescia, i padroni di casa sono sotto per 3 a 2 contro l’Atalanta. Roberto Baggio, che ha firmato la rimonta, sta per battere un calcio di punizione decentrato sulla sinistra, sul lato corto dell’area di rigore. Mazzone, dalla panchina delle Rondinelle, scruta quella che è probabilmente l’ultima occasione per acciuffare il pareggio. Nessuno, in campo e sugli spalti, immagina di star per entrare in una delle cartoline più famose del calcio italiano.

Oggi sono esattamente 21 anni da quel derby lombardo. Da quando, cioè, la figura di Carletto Mazzone si è, per così dire, eternizzata in un’immagine che ha fatto il giro del mondo. Un omone di una certa età, rigorosamente in tuta, che corre paonazzo verso la curva dei tifosi avversari. In due cercano di fermarlo, ma ormai è andato. Oggi sono 21 anni che Mazzone è diventato un meme.

La punizione di Baggio è una delle sue, arcuata e tagliente. Quel pallone basterebbe sfiorarlo, e infatti vanno in tanti. Ci prova Calori, salito dalla difesa per l’ultima incursione. Rinaldi, forse ingannato dall’avversario, sbuccia la palla quel tanto che basta per farla carambolare dentro la propria porta. Taibi rimane impietrito. Le telecamere di Tele+ seguono i festeggiamenti dei giocatori del Brescia, poi, di colpo, staccano. “Mazzone in campo” urlano i telecronisti.

È il 2001, le torri gemelle sono andate giù neanche 20 giorni prima e i social network sono ancora di là da venire. In Italia, allora come oggi, avere una linea internet decente può essere un’impresa. Eppure, in quegli istanti, Carletto Mazzone sta per sperimentare una delle specialità dell’odierna società digitale. Dove il tempo corre talmente veloce da ingarbugliare passato e futuro, fusi tra loro in una sorta di eterno presente. Dove le immagini diventano icone, rimandandoci solo alle sensazioni più immediate, le uniche fruibili da chi può dedicare solo tre secondi di attenzione tra una scrollata e l’altra della bacheca.

Mazzone nel 1993, nuovo allenatore della Roma

Li mortacci vostri”, il labiale è perfettamente leggibile. Mazzone si è fatto mezza fascia, si ferma a pochi passi dai cartelloni pubblicitari e agita il pugno. Menichini e Piovani lo raggiungono, riuscendo a riportarlo verso la panchina. Collina, arbitro del match, non ha nemmeno bisogno di estrarre il cartellino rosso. L’allenatore del Brescia rientra negli spogliatoi. Ha rimontato un derby dove stava sotto di due gol, ma ormai non conta più nulla.

Ormai Carletto Mazzone è quello scatto. Trasfigurato in un personaggio di Mario Brega, romanesco sanguigno e caciarone. Emblema, per l’inguaribile nostalgico, di un calcio genuino che non c’è più. Simbolo di una verace “ignoranza”, anch’essa ormai trasfigurata, diventata ingrediente fondamentale per una moderna discussione calcistica. Di quelle che piacciono tanto ai social e ai loro algoritmi. C’è tutto questo in quell’immagine di ventuno anni fa. Ma c’è anche dell’altro.

Nel caso di Mazzone, “quell’altro” parla di quasi quarant’anni di panchine su e giù per lo stivale. Racconta di grandi imprese di provincia, con Ascoli e Lecce portati per la prima volta in serie A e salvati al primo colpo. Ancora oggi è l’allenatore con più presenze in Serie A, per un totale di 795 partite tra il 1974 e il 2006. In totale le sue panchine ufficiali sono 1.278. Tra gli allenatori italiani solo Trapattoni ne conta di più, contando anche le sue esperienze all’estero e in nazionale, però.

Quella foto di 21 anni fa nasconde non una, ma tante storie. Nasconde una vita. Da scoprire andando oltre le semplificazioni più immediate. Dedicando a Carletto Mazzone quel che merita. Qualcosa in più di tre semplici e acritici secondi.

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