Agnès Varda, la signora della Nouvelle Vague.
La scorsa settimana Agnès Varda ci ha lasciato. Uno spirito libero e una delle voci più appartate e vitali della Nouvelle Vague, la corrente cinematografica francese nata alla fine degli anni Cinquanta.
La scorsa settimana Agnès Varda ci ha lasciato. Uno spirito libero e una delle voci più appartate e vitali della Nouvelle Vague, la corrente cinematografica francese nata alla fine degli anni Cinquanta.
La scorsa settimana Agnès Varda ci ha lasciato: una delle voci più appartate e vitali della Nouvelle Vague, la corrente cinematografica francese nata alla fine degli anni Cinquanta.
Spirito libero, aveva iniziato come fotografa e documentarista per poi avvicinarsi a un movimento cinematografico a cui dobbiamo molto. Se oggi il nostro sguardo è cosi disinibito e meno ingenuo lo dobbiamo a quel gruppo formatosi intorno alle idee del critico André Bazin. Macchina da presa in spalla, scene girate nelle città, all’aperto e la voglia di inventarsi “autori” marcando fortemente la differenza con tutto il cinema francese precedente. Scelte radicali come il tentativo di far saltare le regole della grammatica filmica: raccordi “sbagliati”, luce naturale, inquadrature esageratamente lunghe, l’uso del piano-sequenza.
Agnès Varda esordisce nel 1955 con la pellicola La Punta Corta ma è solo con Cleo dalle 5 alle 7 che si afferma internazionalmente, Come ricorda Gianni Rondolino nella sua Storia del Cinema: «[…] certi problemi della condizione femminile… trovano una puntuale trattazione nella rappresentazione di un frammento di vita quotidiana di una ragazza parigina». La storia è tra le più semplici, la macchina da presa segue per due ore (qui il tempo del film (diegetico) si sovrappone quasi alla durata della pellicola) la protagonista a zonzo per Parigi nell’attesa di avere l’esito di alcuni esami medici forse nefasti. La cineasta insegue la sua protagonista con sapore “zavattiniano”, registra gli incontri , i momenti più banali e meno salienti: tutto ciò che nessun altro regista mai filmerebbe. Ci sono una leggerezza e una libertà nella costruzione dell’inquadratura che lasciano stupefatti: l’incoscienza della giovinezza e l’impalpabilità dell’immagine.
Nel 1954 fonda la società Ciné Tamaris per la quale produce tutti i suoi lungometraggi, ciò le permette la massima indipendenza produttiva e artistica.
Con i successivi film, Il verde prato dell’amore (1965), Les créatures (1966) e Lions Love (1969), la volontà documentaristica si accentua.
Nel 1985 con Senza tetto né legge ottiene il Leone d’oro a Venezia. Nel 1991 gira Garage Demy dedicato al marito Jacques Demy, da poco scomparso, anche lui regista e sceneggiatore. Nel 2018 le viene conferito l’Oscar alla carriera.
La voglia di registrare la realtà da parte della cineasta l’accomuna sia alla Nouvelle Vague che al cinéma vérité, espressione creata dal filosofo Edgar Morin: «Si tratta di fare un cinema verità che superi l’opposizione fra cinema romanzesco e cinema documentaristico, bisogna fare un cinema di autenticità totale, vero come un documentario ma col contenuto di un film romanzesco, cioè col contenuto della vita soggettiva».
Se oggi il cinema è libero e coraggioso nell’ibridare i generi e le forme lo deve certamente a questa donna coraggiosa e inquieta, che ha saputo rivolgere uno sguardo inedito alla realtà del suo tempo.