Comincio a scrivere questo pezzo con un dubbio di quelli forti, di quelli che si trascinano dietro una responsabilità mica da poco alimentando la mia già fastidiosa insonnia: ma avendo sbeffeggiato, qualche giorno fa, un amico che citava in un suo articolo i Jalisse, potrò permettermi di nominare Umberto Tozzi nella recensione di Noi? Bando ai tentennamenti, mi lancerò con arroganza ed eroismo sfidando la sorte e sarà quel che sarà (no, un’altra dottissima citazione!).
Gli altri siamo noi, cantava Tozzi a Sanremo nel 1991, ma dubito che Jordan Peele potrà mai ricevere una denuncia per aver costruito attorno a questo titolo il suo ultimo film.

Stratificazione. Come ogni buon horror che si rispetti, anche Noi non è esente da quella peculiarità che ha portato nell’olimpo registi che hanno fatto grande il genere: la doppia (o tripla, ma anche quarta) lettura, la capacità di veicolare tra le righe un messaggio che vada ben oltre al semplice “Bu!” utile solo a far sussultare sulla poltrona lo spettatore. George Romero, John Carpenter, Wes Craven sono alcuni dei tanti nomi che hanno ricevuto l’attenzione della critica per una tipologia di film solitamente poco rispettata perché indirizzata ad un target semplice, in cerca di epidermiche emozioni e null’altro. Che poi, a un certo punto, la cosa fosse sfuggita di mano è un altro discorso («Secondo te Sam Raimi cosa avrà voluto dire con il Libro dei Morti che libera il male nel suo Evil Dead?» «Ehm, forse che se il Libro dei Morti libera il male sono uccelli per diabetici per tutti…?»), ma sarebbe ingiusto imputare la presunta trasformazione da registi cazzari ad autori ai critici dei Cahiers du Cinéma e ai loro epigoni; era un’epoca tutta da costruire, ancora da esplorare ed inventare e la capacità dei summenzionati genietti era quella di annusare il vento che tirava nella società di allora e di metabolizzarlo per poi tramutarlo in pellicola. Che non fosse una dote di qualunque regista di horror lo si capisce dalla memoria che ne possono avere le generazioni che vanno dai quaranta ai settant’anni, il che si traduce nell’oblio per tutti quei nomi che pensavano solo al mero guadagno realizzando prodottini innocui “usa e getta”, ma se qualcuno di loro ancora oggi gode di fama per la gloria passata e, grazie a questo, riesce a lavorare… beh, un motivo ci sarà. Ok, alcuni si sono rimbambiti di brutto, è vero, ma non è questo il momento di parlare di Dario Argento.

Ridi che ti passa. Da una recente ricerca di mercato (cioè ho chiesto ad un’amica di spiegarmi le sue motivazioni), chi è uscito deluso dalla visione di Noi lo deve principalmente a due fattori: pensava che facesse più paura e ha trovato assurda la spiegazione finale. Bene. Cioè, insomma. L’errore è aver considerato Jordan Peele un regista di horror per il suo precedente Scappa: Get Out, che già di paura ne faceva pochina, tanto da essere messo in lizza tra i possibili destinatari dell’Oscar al miglior film dello scorso anno. Quanti horror sono stati candidati negli anni e quanti hanno vinto per il miglior film? Ve lo dico io, già che ci sono: rispettivamente una manciata e NESSUNO. Questo per dire che un vero horror ha ben poche speranze di vincere qualche riconoscimento al di là dei festival di settore e quindi, se è stato nominato al premio più importante del Cinema dopo il David di Marcondirondirondello, un motivo ci sarà ed è quello che fa anche ridere e non solo spaventare. Sì, esattamente: Scappa: Get Out godeva di un buon soggettino (ce l’ho con i diminutivi, ma non è colpa mia se chi lo ha esaltato così tanto non ne ha riconosciuti gli evidenti limiti ed il fiato corto da buon episodio di una serie tipo I racconti della cripta o Ai confini della realtà), però di spaventare veramente non ne aveva alcuna intenzione. Di buono c’è che l’opera seconda schiaccia di più il pedale della suspense, anche se non rinuncia ad allentare la tensione con la risata, alle volte liberatoria, altre ammosciante come quando il vostro partner si ostina a far simpatiche battute durante un rapporto sessuale.
Per quanto riguarda la “spiegazione” che l’essere razionale che è in noi pretenderebbe da qualsiasi evento, figuriamoci da un film, è difficile parlarne senza rischiare lo spoiler, perciò dirò solo che per me così ci può stare e che, anzi, l’ho trovata anche abbastanza originale. “Originale”, non ho detto “assolutamente credibile”, occhio.

Black is the new black. Quando si pensa al “Cinema Black” o si parla della Blaxploitation delle pellicole d’azione degli anni Settanta, oppure si parla di Spike Lee. Altri eventuali riferimenti rientrano nella categoria di quelli insultati da Spike Lee perché, a suo modo di vedere, poco black.
Peele non credo che correrà grossi rischi: il suo è un film molto politico sulle differenze sociali, è interpretato da attori di colore (semplicemente grandiosa la protagonista Lupita Nyong’o e perfetta la “figlia” Shahadi Wright Joseph) e pare che lui non abbia alcuna intenzione di compiacere il pubblico – bianco americano o legaiolo che sia – cambiando abitudini. Speriamo che continui così.

La trama senza spoiler. Non esiste. Nel senso che è impossibile raccontare di Noi senza rovinare qualcosa, che poi è il fulcro del film: una sola idea originale mascherata da un’altra idea già vista mille volte, ma raccontata con stile e buona capacità di mantenere alta l’attenzione del pubblico. In pratica c’è una famiglia di quattro persone che si trova davanti… macché, niente da fare; serve un atto di fede, ma per chi frequenta seriamente il genere non sarà una cosa tanto difficile.

Ansia da prestazione. Superato brillantemente lo scoglio dell’opera seconda, dalla quale – è noto – tutti si aspettano il meglio per applaudire o il peggio per fischiare, a Jordan Peele ora toccherà l’impegnativo compito di confermarsi come un nome sicuro da spendere per un genere considerato più che altro da cassetta per colpa di troppe idiozie seriali, ma che può dare anche enormi soddisfazioni consegnando la chiave d’accesso alla Storia del Cinema. A Shyamalan, in fondo, sono bastati un paio di eccellenti film e a nulla sono valsi i suoi successivi tentativi di rovinarsi con le proprie mani la carriera: ormai era già entrato tra i grandi. O grandicelli, diciamo.
Nel frattempo, finché si schiarisce le idee per il prossimo lavoro, Peele presenterà in televisione la nuova serie de Ai confini della realtà(ma guarda un po’!), nel ruolo che fu del mai troppo compianto Rod Serling. Non male…

Voto: 3,5/5

Noi
Regia di Jordan Peele
Con Lupita Nyong’o, Elisabeth Moss, Winston Duke, Anna Diop, Kara Hayward, Yahya Abdul-Mateen, Tim Heidecker, Shahadi Wright Joseph, Cali Sheldon e Noelle Sheldon