Restare umani, oggi
A più di quarant’anni dalla Legge Basaglia, la psichiatria italiana è chiamata a una riflessione profonda: tra memoria, risorse e rischi di ritorni al passato.

A più di quarant’anni dalla Legge Basaglia, la psichiatria italiana è chiamata a una riflessione profonda: tra memoria, risorse e rischi di ritorni al passato.
In uno dei suoi scritti, lo psichiatra Eugenio Borgna si chiede con quali fenomeni psichici abbia a che fare la psichiatria. Con la sua puntuale e profonda parola, transita tra i concetti di “psiche” e “neuro”, sottolineando come un disturbo psichico non possa essere ridotto a un’alterazione puramente biologica, organica o funzionale delle strutture cerebrali.
Questo significa che non possiamo pensare che la psichiatria si risolva nella neurologia. Basti solo considerare il fatto che, in psichiatria, ci si trova di fronte a sintomi che non hanno la “immobilità e l’immediatezza, la costanza e la rispondenza farmacoterapeutica, dei fenomeni somatici” (E. Borgna).
Sono sintomi, infatti, ben più complessi di quelli del corpo, come per esempio la febbre, perché sono esperienze vissute, caratterizzate da una dimensione interiore e da una esteriore in relazione tra di loro.
Alcuni sintomi psicopatologici, per esempio, possono cambiare (aumentare o diminuire) in base all’ambiente in cui i pazienti si trovano. Succede che, indipendentemente dalla modificazione della terapia farmacologica, l’esacerbazione o l’attenuazione dei sintomi dipenda anche dalla relazione intersoggettiva che si instaura tra chi cura e chi viene curato.
La storia di vita dei pazienti, il loro “romanzo famigliare”, il mondo sociale, la soggettività con cui vivono le malattie, non possono essere estromessi da una psichiatria che si occupa della persona nella sua complessità. Pena la perdita della capacità di scegliere le appropriate strategie terapeutiche, che non possono essere ridotte alla sola farmacoterapia ma devono essere anche psicoterapeutiche e socioterapeutiche.
Gli psicofarmaci, infatti, lavorano per lo più sui sintomi e non sulle cause della malattia; quindi c’è bisogno della sinergia che si crea mettendo in atto le diverse “terapie”.
Questo è importante perché non ci si sta occupando di “disturbi”, ma di persone con sfaccettature e argomentazioni specifiche e intime.
Ciò richiede quell’impegno e sostegno da parte della comunità e delle istituzioni, che non escludano la prospettiva culturale da cui partì Franco Basaglia, lo psichiatra che diede il via alla riforma della psichiatria in Italia e che portò, con la Legge 180 del 1978, non solo alla chiusura dei manicomi ma anche alla riorganizzazione dei servizi psichiatrici territoriali con l’intento preciso di non escludere dalla comunità la cura della malattia mentale.
Egli svincolò i pazienti psichiatrici da un “destino inevitabile” e dalla “pericolosità sociale”, restituendo loro dignità, diritti e soprattutto la possibilità di cura attraverso un sistema strategico e sinergico. Sistema che non prevede più l’isolamento, ma l’integrazione e l’accompagnamento.
Motore di tutto questo è stato indubbiamente un cambiamento culturale, che ha spinto e insistito, non senza fatica, sulla necessità di mettere in campo strumenti, risorse e percorsi che coinvolgano non solo i pazienti e le loro famiglie, ma anche medici, infermieri, operatori, amministratori, politici e tutta la comunità.
Oggi, tale riforma è in debito di ossigeno: se vengono destinati alla salute mentale solo un 3% della spesa sanitaria nazionale, diventa difficile sostenere e garantire tali conquiste!
Risulta faticoso rispondere alle nuove esigenze del tessuto sociale sul quale si ricamano le vite dei pazienti e delle loro famiglie. La legge 180 va sostenuta e applicata a pieno; va anche rivista, in alcune sue parti, con la finalità di poter essere sempre più in grado di mantenere l’ordito imprescindibile su cui si fonda: “restare umani”.
Le persone con disturbi mentali non sono “oggetti di paura e controllo”, ma sono soggetti con il diritto di essere curati e integrati (Peppe Dell’Acqua). Per funzionare, la legge ha certamente bisogno di risorse, in modo da garantire strutture e formazione per operatori, strutturando — il più possibile in collaborazione con tutti gli attori del sistema — un percorso di cura per ogni singolo paziente.
L’11 marzo 2024 cadeva la ricorrenza per i 100 anni della nascita di Franco Basaglia e, a distanza di qualche mese, il 27 giugno, è stato presentato il DDL 1179, Disposizioni in materia di tutela della salute mentale, a firma Francesco Zaffini (Fratelli d’Italia), ad oggi in corso di esame in commissione.
Una volta letto il DDL, quello che emerge da tale vicinanza temporale è la distanza qualitativa che, come una nota stonata, sottolinea una “malinconia pericolosa” (non così velata) per una ormai vecchia psichiatria, basata su mezzi di contenzione, TSO (che si prolungano a 15 giorni, con conseguente investimento economico per aumentare il numero di posti letto in SPDC — Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) e il ricorso delle forze dell’ordine ed esercito per far fronte agli scompensi dei pazienti.
Si ritorna a obsoleti schemi di repressione e controllo, basati sull’idea — ormai smentita — che la malattia mentale sia legata indissolubilmente al concetto di pericolosità sociale.
Sono bellissime le parole di Peppe Dell’Acqua, allievo di Franco Basaglia: «Con la legge 180 abbiamo tra le mani un “bene comune” che guarda al futuro. Ci sono problemi reali, ma invece di ritornare a strutture di isolamento, dovremmo migliorare quello che già esiste».
Ovvero, bisogna investire su centri diurni e strutture residenziali, sulla rete che unisce i pazienti e i loro familiari: cooperative sociali, onlus, associazioni sportive e culturali. Questa realtà, oggi, soffre soprattutto della mancanza di finanziamenti fondamentali per la formazione del personale e il supporto di progetti che possano concretamente fare la differenza tra un sistema che considera il paziente come un oggetto da controllare e “aggiustare”, e uno che invece lo riconosce nella sua storia, nelle sue emozioni e difficoltà — ma anche, e soprattutto, nelle sue risorse. In una sola parola: nella sua umanità.
L’“effetto collaterale” di questo modo di pensare è la possibilità di favorire un rapporto di fiducia — e di conseguente cura — tra pazienti e operatori sanitari, con una maggiore probabilità di reinserimento sociale.
«Restare umani non riguarda solo i pazienti, ma anche i loro familiari e tutto il personale. Anche loro meritano di lavorare in un sistema che valorizzi la dignità e la collaborazione, e che permetta di vivere una vita normale. È una responsabilità che dobbiamo condividere come comunità, perché solo così possiamo garantire un ambiente di cura che sia davvero umano.»
Peppe Dell’Acqua
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