Quando ho finito di leggere Breve Atlante delle (altre) madri e dei (nostri) figli di Mara Cinquepalmi (Scatole Parlanti, 2025) ho tirato un forte sospiro, forse non di sollievo ma di riflessione. Come quando ti trovi davanti a un fatto che ti spiazza, a un carico emotivo notevole, ed è necessario prendere un bel respiro ampio per farsi coraggio e iniziare a pensare.

Allora sono tornata al titolo, ricco di significati: Atlante non è solo una raccolta di carte geografiche, di luoghi accomunati da alcune caratteristiche. Atlante è anche il gigante mitologico che sorregge il mondo da tempo immemore, è il mito che diventa immagine fertile e fortunata per queste madri raccontate da Cinquepalmi: madri che portano e sopportano (ma anche sollevano, rimanendo nello stesso alveo semantico) pesi immani affinché, in alcuni casi, siano più tollerabili per altri.

In qualche sorta, anch’esse figure mitiche nel confrontarsi con destini avversi, scelte profondamente dolorose, scelte che proteggono da padri assenti o divoratori, come il tempo, Kronos, il cui ego mai può essere offuscato da un figlio.

L’amore come scelta

E le storie di queste quattro madri, emblematiche nella loro sostanza narrativa, spiegano, un po’ come fa il mito, il legame invisibile e sotterraneo con i propri figli, che hanno scelto di lasciare a qualcun altro. Non è detto che questo legame sia dettato da un sentimento d’amore: come afferma l’autrice “Nessuna legge obbliga genitori e figli a volersi bene. Si sceglie di essere madri come di essere figli”.

Eppure, questo laccio sottile esiste e perdura e, nonostante le storie abbiano una collocazione spazio-temporale ben precisa, ha un valore universale. Così, l’amore diventa una scelta, non un fatto innato, non un evento genetico; è anch’esso frutto dell’oltrepassare una soglia, del compiere un passo mai per caso.

A tal proposito, le vite delle madri descritte nell’Atlante sono scandite da soglie che si riflettono poi nel vissuto dei figli. Per questo, l’autrice gioca sapientemente con i punti di vista, entrando nelle storie prima delle Agate (così si chiamano le quattro donne protagoniste) e poi dei figli cresciuti in un altrove ad esse sconosciuto. Talvolta lo sguardo si allarga, diventa esterno e il narratore racconta senza giudizio, anche qui senza inutili patetismi.

Scelte di madri, vite di figli

Mi piace pensare allora a questo breve libro come a una raccolta di soglie, luoghi di passaggio, fisici e non, che vengono varcati e a partire dai quali nulla è più come prima. L’affidamento di un figlio ad altri, che in alcuni casi può essere letto come abbandono, la presa di coscienza (del figlio, ma anche della madre stessa), il ritrovarsi dopo molto tempo, non per forza in presenza.

Sono queste le tappe che attraversano le quattro Agate e che sollevano numerose domande nel lettore; il nome Agata, poi, contiene l’amore al suo interno (l’etimologia, infatti, rimanda ad agape), manifesto o maturato dopo un lungo processo, così come Sant’Agata era la martire protettrice delle balie e delle nutrici, quasi in un gioco ironico con le personagge.

Soffermandosi su queste storie, sui motivi che portano queste madri ad affidare i propri figli, sulle diverse reazioni di questi una volta ragazzi o adulti, con le loro vite altrove, l’autrice ha il merito di indagare coraggiosamente sulla sensibilità che ruota attorno a queste soglie.

Il peso dell’opinione degli altri

Nella fattispecie, se pensiamo alla duplice reazione nelle cronache di fronte all’affidamento di un figlio ad altri, da una parte la riluttanza (“ma come, una madre può separarsi dal proprio bambino?”), dall’altra la lode moralizzante (“si tratta di un gesto responsabile e d’amore, piuttosto dell’aborto”), leggendo il breve Atlante ne rileviamo tutti i limiti del caso.

La scrittura dell’autrice, senza orpelli, in alcuni passaggi quasi cronachistica, ci aiuta quindi a adottare una sospensione del giudizio, ad avvicinarci a queste madri e poi a prenderne anche le distanze, anche grazie all’alternanza delle voci del narratore.

Le quattro storie, che si leggono tutte d’un fiato, presentano alcuni tratti comuni. In primo luogo, la costante preoccupazione per l’opinione altrui, per il “chissà cosa dicono gli altri”, o, per citare l’autrice “sono cose che succedono, ma è meglio non dirle in giro”. Tuttavia, se è possibile fuggire al giudizio altrui, nascondendosi nell’ospedale per ragazze gravide, come nel racconto La crepa, o scappando per lavorare in Germania, come in Un altro posto nel mondo, non è possibile non venire colpiti dallo stigma dei familiari. Nelle “parole che puzzano” del padre, sempre nella Crepa, la sinestesia ci racconta l’inevitabilità del dramma, poiché Agata è costretta a respirare la delusione, la paura dei giudizi dei propri genitori.

E spesso è proprio questa paura a far crescere queste donne in contesti di finzione, di apparenza, dove in mezzo a tante bugie lasciare il proprio figlio a qualcun altro diventa un atto di autenticità, di coraggio e infine, in un secondo momento, di scoperta di una verità che fa malissimo.

Cosa ne sarà di loro

Ancora. I pochi dettagli di un figlio nato e subito portati via. Una testolina nera, un corpo lungo. Nulla più. Piccole scaglie di memoria a cui ci si aggrappa. Il contrasto che attanaglia le vite di queste donne, tra quello che sentono e quello che pensano sia giusto fare, tra l’orfanotrofio ex palazzo signorile, ricco di affreschi mitologici, divenuto poi un convento di suore, un contrasto che viene sublimato nel momento del parto (“Luce, buio, caldo, freddo”) e che crea un dolore da spezzare il fiato. Le estati torride italiane, con le partite di calcio sullo sfondo, come momento di rivelazione, cruda ma necessaria (“è crudele morire d’estate”).

Come afferma l’autrice nella prefazione, sappiamo molto di queste madri prima del fatto, prima dell’affidamento, ma le reticenze del dopo, del cosa ne sarà dei loro figli e dei loro destini, pesano altrettanto. Se la letteratura italiana vanta numerose figure materne ingombranti le cui scelte diventano quasi ossessioni per i figli – pensiamo al narratore di Aracoeli della Morante o alle Parole tra noi leggere della Romano – è cosa buona e giusta interrogarci anche su queste personagge in ombra, dimenticate, talvolta denigrate, non mitiche, ma reali.

Sono i loro sensi di colpa a gravare sui figli e a determinare la loro soglia, a rivitalizzare un legame sempre rimasto latente. Senza tante parole, ma con gesti che contano, con grumi di buio che tornano a farsi sentire.

La presentazione a Verona

Foggiana ma bolognese d’adozione, Mara Cinquepalmi nel 2015 ha scritto Te lo leggo negli occhi per l’antologia Hanno deciso gli episodi: 20 racconti sul calcio e i suoi luoghi comuni (Pendragon) e La cura della memoria pubblicato in Emilia Romagna. La religione della cura (Les Flaneurs, 2022). È autrice dell’ebook Dispari. Storie di sport, media e discriminazioni di genere (Informant, 2016) e dei libri Donne di carta. Il Poligrafico nei documenti dell’Archivio di Stato di Foggia e nei ricordi delle lavoratrici (Il Castello, 2017) e Turista per calcio (e non per caso) (Il Castello, 2020). Ha curato, per l’associazione GiULiA, il libro Donne Media & Sport (2019), poi rieditato dalla Fondazione Murialdi per il giornalismo (2021).

Lunedì 12 maggio alle ore 18, presenterà il libro allo Spazio Alva in via Terrà, 5, in dialogo con Alessandra Minervini e Luisa Campedelli.

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