Corpi e memoria, immagini sbiadite, pugni e vergogna. Un pugile lo sa, quando sale sul ring, che il tappeto prima o poi arriva per tutti. Impossibile sapere quale sarà l’ultimo match da combattere. È una questione di resistenza, di prenderne meno che puoi e scegliere le battaglie che sei in grado di affrontare. E questo, non sempre accade.

Quella di Leone Efrati è storia di casa nostra. Nasce a Roma nel1915, fin da piccolo lo chiamano “Leletto” e quando inizia a tirare i primi pugni non importa a nessuno che la sua sia una famiglia di origine ebraica. Anzi, nelle palestre popolari dell’Urbe e del Ghetto nei primi anni ‘30 si sta formando una generazione di pugili di ottimo livello. Efrati, il primo, ma anche Pacifico Di Consiglio detto “Moretto”, Lazzaro Anticoli detto “Bucefalo” (che di Efrati è nipote) e Settimio Terracina. Tutti ebrei. Ma in quel momento al Regime fascista questo non interessa. All’Italia servono corpi, per celebrare la patria e lucidare l’orgoglio.

Leone Efrati ha diciassette anni il 29 giugno 1933 quando, in un Madison Square Garden gremito in ogni ordine di posto, Primo Carnera colpisce al volto Jack Sharkey con un montante destro. Il pugile, di origine lituana, finisce al tappeto senza rialzarsi e Carnera conquista il titolo mondiale dei pesi massimi. È il primo italiano campione del mondo di pugilato e, dopo il match, invia subito due telegrammi di ringraziamento: il primo era indirizzato alla madre, il secondo al Duce. “La montagna che cammina” è l’immagine del primato della razza italica.

Cartolina firmata da Leone Efrati

La carriera da peso piuma di Leletto, all’inizio, non è la marcia trionfale del predestinato. Tra sconfitte e vittorie combatte contro i migliori pugili nazionali come i futuri campioni europei Gino “il Girandola” Bondavalli e Gino Cattaneo, prima di intraprendere un brillante percorso internazionale. Attraversa l’Atlantico ed è negli USA che ottiene la sua consacrazione. Carnera, nel frattempo, ha già abdicato al trono in favore di Max Baer. Pugile ebreo, pure lui. Ma le immagini del gigante di Sequals al tappeto in Italia non arrivano.

In America è la boxe dei titoli sui giornali, dei lustrini e delle scommesse illegali, certo. Ma quella di Leone Efrati è una crescita continua, con la grande occasione che arriva il 28 dicembre del 1938. Al Coliseum di Chicago Efrati sfida Leo Rodak per il titolo mondiale di categoria. Viene sconfitto in dieci round, ma in Italia non lo sa nessuno. Poco più di un mese prima, il Regime ha promulgato le leggi razziali.

Quella di Leone Efrati è anche una storia di silenzio. Quello che cala su ogni sportivo di origine ebraica a partire dal 17 novembre del ‘38. Il Chicago Tribune alla sfida per il titolo con Rodak dedica otto colonne in prima pagina. Da noi nessuno ne parla. È il silenzio che cala anche su tutto ciò che accade dopo, tanto che ci si deve affidare ai ricordi, alle poche testimonianze sopravvissute e alla tigna di giornalisti come Antonello Capurso che, a quasi ottant’anni di distanza, recupera la storia di Leletto, scrivendoci un libro e pure uno spettacolo teatrale.

Nel 1939 Efrati tocca l’apice della carriera, è classificato come uno dei migliori pesi piuma del mondo, quando decide di rientrare in Italia. Forse sottovaluta l’impatto della campagna razziale del Regime, ma sceglie comunque di tornare per restare accanto alla famiglia, rifiutando pure l’ospitalità offerta dagli USA. Viene riaffiliato alla Federazione Pugilistica Italiana, ma la sua carriera è sostanzialmente finita. Resiste finché può, poi, nelle drammatiche ore successive all’attentato di via Rasella e all’eccidio delle Fosse Ardeatine, finisce vittima dei rastrellamenti delle SS. Riesce a mettere in salvo il figlio, Romolo, prima di venire spedito nel campo di Fossoli insieme al fratello. Ma è solo la prima tappa.

Il portale di ingresso ad Ebensee

Il convoglio è il numero 13. La data di partenza il 26 giugno 1944. L’arrivo, quattro giorni dopo, ad Auschwitz-Birkenau, una sosta prima della destinazione finale: Ebensee (Mauthausen). Per chi è stato boxeur, nei lager, il destino è più o meno sempre lo stesso. Si combatte a mani nude, contro uno o più pugili grandi di te, per le scommesse e il diletto dei tuoi aguzzini. Pugni per spettacolo, in fondo non è quello che hai fatto per tutta la vita? Ora ci divertiamo noi.

A raccontarcelo è Alberto Sed, suo amico e compagno di deportazione, sopravvissuto.
«I tedeschi lo conoscevano, hai voglia se lo conoscevano. Era il pugile ideale per le scommesse. Un grande peso piuma contro un bel peso medio, e giù soldi, tanti soldi. Non c’era il ring, solo il piazzale e loro che urlavano, si divertivano, giocavano. Sempre di domenica, quando non si lavorava. Noi assistevamo agli incontri, ma con che spirito. I tedeschi davano a chi combatteva un premio, spesso un pezzo di pane. Poi, un giorno, tutto finì».

La storia di Leone Efrati è pure una storia di vergogna. Delazioni e denunce sussurrate nell’ombra. È la Roma città aperta magistralmente raccontata da Roberto Rossellini, dove la catastrofe di un popolo trova raffigurazione nel volto di Anna Magnani. 5 mila lire il prezzo per un nome. Quelle che non gli hanno lasciato scampo dal rastrellamento. Una sorte, quella di venire traditi da una delazione, condivisa anche con altri compagni di ring nel Ghetto.

Lazzaro Anticoli – Bucefalo

Sia Pacifico Di Consiglio che Lazzaro Anticoli furono incastrati da una soffiata. Se il Moretto riuscì a fuggire dal camion destinazione Auschwitz su cui era stato caricato, continuando poi a farsi giustizia contro le camicie nere, Bucefalo è uno dei “cinque in più” tra tutti i 335 fucilati alle Ardeatine. Terracina, invece, dopo averci combattuto per un po’ è rimasto negli USA, ha aperto una trattoria e sul suolo romano ci ha rimesso piede come marine, impiegato nello sbarco di Anzio.

L’ultimo incontro di Leone Efrati giunge quando scopre che il fratello, internato insieme a lui, è stato pestato a sangue da uno dei kapò del campo. La sua reazione violenta scatena le guardie, che lo riducono a terra moribondo. E lo sappiamo tutti cosa succede in un lager quando non hai la forza di alzarti durate l’appello. La parabola termina in un forno crematorio, stessa sorte toccata anche al fratello. Alcune fonti indicano nel 17 aprile 1945 la data della morte, altre il 14. Cosa cambia, questione di pochi giorni. Come i venti che mancavano alla liberazione del campo da parte degli americani.

Raccontare la storia di Leone Efrati, oggi, costringe a interrogarsi. Sono tempi di scudi levati e urla. Di muri di gomma e pietre che cristallizzano il divenire della storia in un eterno presente. Una nebbia polverosa, che sfrutta le tragedie di oggi per cancellare le impronte del passato. Colpe e dolori si mischiano in una sostanza grigia e informe. Ed è per questo che, proprio oggi, raccontare una storia come quella di Leletto è semplicemente giusto. Perché l’abisso di ieri sbiadisce se l’uomo, non avendo imparato la lezione, sceglie il silenzio. È così che muore la memoria. E questo è un match che non possiamo permetterci di perdere.

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