Siamo abituati a pensare e ad immaginare la psicoterapia come profondamente e quasi esclusivamente legata alla parola. Di fatto lo è, soprattutto se consideriamo la parola stessa come veicolo di immagini interne costellate da vissuti, esperienze, ricordi e sogni. Ma talvolta in quello spazio sacro che è la relazione terapeutica, compaiono anche lacrime, agiti e silenzi; oppure “troppe” parole che girano attorno, senza affrontarlo, ad un indicibile spesso lontano, inafferrabile e spaventevole a tal punto da mozzare e imbrigliare le immagini in esso contenute, così da perderne la traccia consapevole e talvolta cosciente.

Il linguaggio delle mani

E quindi che si fa quando non si può o non si riesce ad esprimere ciò che fa soffrire o terrorizza? Come si fa a ristabilire un contatto con determinati vissuti traumatici o dolorosi che per difesa vengono allontanati dalla sfera cosciente ma che continuano a muoversi autonomi, agitandosi, nei sotterranei dell’Anima?

Nella dimensione analitica, il temenos, lo spazio relazionale sacro e sicuro che si crea tra paziente e terapeuta, permette di sperimentarsi e viversi nel disagio e nelle domande di senso più o meno dolorose, più o meno sapute. Permette di scavare a fondo dentro di sé per far emergere e dar voce ad immagini interne sconosciute.

Può capitare che per caratteristiche personali o vissuti che rendono difficile esprimersi, o per esempio con bambini e in alcuni adolescenti, la possibilità di accedere ad aree inconsce profonde da ricongiungere alla dimensione conscia, possa essere facilitata in vari modi, tra cui il gioco.

Esso, infatti, è alla base del linguaggio e, come dice Jung, «spesso accade che le mani sappiano svelare un segreto intorno a cui l’intelletto si affanna inutilmente». Le mani, infatti, a volte parlano più chiaramente delle parole.

La sandplay therapy

Siamo entrati nello studio della Dottoressa Maria Bassi, psichiatra e psicoterapeuta ad indirizzo junghiano, per farci raccontare qualcosa a proposito di una particolare metodica di psicanalitica junghiana, la Sandplay Therapy.

La Sandplay Therapy o gioco della sabbia è una metodo analitico junghiano che nasce dall’intuizione della psicoanalista Dora Kalff,(1904-1989), allieva di Carl Gustav Jung.
La Kalff si ispirò a sua volta alla pediatra inglese Margaret Lowenfeld, che dopo la prima guerra mondiale aveva ideato il “Gioco del mondo”, o Worldtecnique per aiutare i bambini traumatizzati dal conflitto.

La Sandplay Therapy lavora in sinergia con la terapia verbale permettendo così di contattare ed elaborare tematiche profonde anche molto lontane. Si tratta di far interagire, giocare il paziente con una cassetta a sfondo blu piena di sabbia asciutta o bagnata, con dimensioni stabilite (57x72x7) che corrispondono al campo visivo; inoltre la presenza di questi confini permette di proteggere e contenere lo spazio libero nel quale il paziente si può esprimere. «La sabbia è un materiale naturale che può curare», diceva Dora Kalff.

Foto da Pexels di Cottonbro Studio

Riporta all’esperienza con la matrice terrestre da cui tutto origina, permettendo di contattare le proprie origini. Può aiutare a rievocare l’antica esperienza delle prime cure materne suscitando sensazioni molto diverse.

Per esempio la si può percepire come tiepida oppure fredda; può risultare fastidiosamente appiccicosa o al contrario piacevolmente morbida… Nella stanza della sabbiera, si trovano numerosi oggetti ordinati su scaffali: animali, piante, personaggi di vario tipo, elementi paesaggistici, case, edifici, mezzi di trasporto e qualsiasi cosa possa rappresentare il più possibile il mondo.

In questa stanza il paziente si muove liberamente, può semplicemente disegnare con le dita sulla sabbia oppure costruire ciò che vuole. Viene invitato a muoversi spontaneamente verso gli oggetti attorno. Il suo inconscio darà la spinta alla sua mano a prendere “quell’oggetto” che diviene così simbolo. Nella sabbiera si crea un’immagine, un quadro che rappresenta, simbolicamente, un problema inconscio.

Le mani, grazie alla Sandplay Therapy, possono esprimere un contenuto inconscio non rimosso e quindi non recuperabile, contenuto nella memoria implicita depositaria, per esempio, di tutti i traumi pre – edipici. Questi movimenti liberi vengono protetti e contenuti (e quindi esperiti con maggior tolleranza dell’ angoscia) dalla sabbia, dal terapeuta che rimane presente e dalla sabbiera stessa che dà dei limiti. Il fine del lavoro con la Sandplay Therapy è quello di far emergere il Sè nuovo e di integrare le parti scisse.

«Nel gioco della sabbia è come se qualcosa che prima era invisibile tutto ad un tratto diventasse visibile, emergendo dagli strati profondi dell’inconscio»

Dora Kalff

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