Quando lessi per la prima volta “Castelli di rabbia” di Alessandro Baricco, provai una sensazione fortissima. Mi sembrava di leggere qualcosa che prima di allora non avevo mai letto. Qualcosa che aveva più a che vedere con i fumetti (penso a certe sceneggiature di Tiziano Sclavi per Dylan Dog) che con un libro. Qualcosa che riguardava certi montaggi cinematografici o forse certi assieme da opera lirica, dove si poteva sentire i pensieri di più personaggi simultaneamente. Tutte cose che nei libri fino a quel momento non avevo trovato. Ero giovane. I libri erano in quel tempo i grandi classici: Poe, Goethe, Wilde, Manzoni, Dante, i tragici greci…

I libri erano bellissimi, e io li amavo, ma non avevano quel ritmo lì. Non ti acchiappavano con quel trasporto. Inoltre c’era la storia, una storia che riusciva a intrecciare tratti fiabeschi, sospesi, atemporali, a tratti di violenza inaudita. Ricordo che in quel libro lessi la mia prima bestemmia. A me sembrava incredibile leggere una bestemmia in un testo scritto. Voglio dire in un libro “serio”, comprato in libreria.

Poi ci fu “Oceano mare”. Poi ci fu “Novecento”. Erano tutti appuntamenti che mi lasciavano senza fiato. Che mi coinvolgevano intensamente. Baricco era lo scrittore che aveva sbaragliato certa letteratura italiana imborghesita, placida e paga di se stessa.

Una parentesi

Poi però accadde qualcosa. I libri successivi di Baricco non avevano più quella fiamma irresistibile nel quale mi buttavo dentro, come una falena. Non avevano più quell’intensità. Erano scorrevoli. Piacevoli alla lettura. Ma non sentivo più quell’urgenza. Non sembravano più andare dritti nelle mie viscere.

A me pareva che anche Baricco fosse ormai finito dentro il suo “baricchismo”. Il che poteva anche essere giusto. Ci mancava solo che Baricco non potesse essere se stesso. Era a me che quei testi avevano smesso di dire qualcosa.

Continuava a parlarmi invece il Baricco saggista. Il Baricco conferenziere. Il Baricco che parlava di altri libri. Il Baricco intellettuale e pensatore che sapeva proporre sempre uno sguardo altro sulla realtà. Quella voce era ancora una voce in grado di incantarmi.

Il ritorno al passato

Dopo un silenzio di otto anni, anni sicuramente pesanti e complessi per Baricco dal punto di vista personale, esce “Abel”, per Feltrinelli.

Il libro viene definito un western metafisico. Su il Post è possibile sentire un’intervista di quasi due ore, Wild Baricco, dove l’autore piemontese “pazzia” (inteso come verbo), parla senza freni, presenta sì il suo libro, ma presenta soprattutto tutta la sua carriera, non solo come scrittore, ma come uomo di spettacolo, come fondatore della Scuola Holden, come consulente di Renzi e come uomo, in tutte le sue luci e in tutte le sue ombre.

“Abel” è un libro alla Baricco. Nel bene e nel male. A colpire come sempre è lo stile. La scelta delle parole. Il giro delle frasi. Il montaggio dei capitoli. Il livello è sempre altissimo. Il livello che sicuramente ti aspetti da uno scrittore attento e talentuoso come Baricco. L’ambientazione western è il ritorno di Baricco a luoghi a lui cari, penso a certi capitoli di City. Ma è l’aspetto “metafisico” quello che trovo più intrigante.

“Abel” è una sorta di “lo zen e l’arte dello sparare”: “A quella distanza – mi aveva insegnato il Maestro – un uomo è un insetto e sparargli è un atto artistico. Poi aveva chiarito che la prima metà del lavoro la si fa con l’occhio, tutto il resto con l’anima”. Oppure, “Quando uccidi sei sacro (…) è tutto sacro. Animale. Antico. Sacro. Sporco e sacro nello stesso tempo”.

La competenza da sceriffo, da audace tiratore, diventano facoltà mistiche: “la capacità, quasi soprannaturale, di fissare lo sguardo in un terzo punto, vuoto, più meno a metà tra i due bersagli (…) quasi affidandosi a una specie di sguardo arretrato, o intorpidito, perfino ottuso, che il Maestro osava paragonare allo sguardo di certi mistici”.

E infatti il Mistico si chiama il colpo più temuto dai pistoleri. Sparare, uccidere, diventa una questione esistenziale: “Sparare è un modo di esistere, un modo drammatico e raro. Scoprire che non sei all’altezza, questo fa paura. Al confronto, morire è una passeggiata”.

Non mancano i personaggi ricchi di personalità: la sorella Lilith, l’amante Hallelujah Wood, il Maestro, un pistolero cieco, appassionato di filosofia, la misteriosa bruja, il Giudice.

Alessandro Baricco – Foto dal profilo Facebook dello scrittore

Non mancano i dialoghi, sempre calibratissimi, efficaci, arguti. Non mancano le storie, perché Baricco è sempre stato un abilissimo rapsodo. Non mancano i momenti di tensione e una prova da superare, il liberare la madre di Abel condannata a morte.

E non manca la violenza. Violenza narrata sempre con quel tono incantato, quasi innocente, che mi aveva colpito fin dal suo primo romanzo, come quando vengono raccontati i rapporti incestuosi tra la madre con Abel e i suoi fratelli (“Dopo quell’inverno, non smise di farlo. Ma accadeva piuttosto nel caldo torrido dell’estate, devo aggiungere. I corpi lucidi di sudore. Quasi non ci toccava. Apriva le gambe e ci prendeva dentro, era come un respiro”).

Ho letto il libro praticamente in una giornata. Non so dire se questo sia il Baricco migliore. Non so dire se questo sia il Baricco che mi aveva acceso troppi anni fa. È sicuramente un Baricco maturo, che però ha mantenuto intatte la sua freschezza narrativa e la sua anima fanciulla. Sono contento che Baricco sia tornato. La sua voce è una voce bella da ascoltare.

È una voce fidata. Amica.

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