Incontriamo Emiliano Cipriani qualche giorno dopo il rientro dalla sua avventura: da Buttapietra, paesino nella provincia sud di Verona, fino a Capo Nord in solitaria. Soltanto lui e la sua Cube gravel, una bicicletta da corsa ma con caratteristiche tecniche pronte a qualsiasi tipo di terreno. Cipriani è un cinquantenne, di professione bancario ma sportivo a buon livello da sempre. Per mesi ha preparato la sua avventura con allenamenti specifici, con uscite in bicicletta tre volte a settimana e una corsetta, come la definisce lui, “la sua prima passione”.

Almeno trecento chilometri in sella, ogni settimana per diversi mesi. Per allenare la resistenza dei muscoli e quella mentale, la capacità di resistere lunghe ore e coltivare l’amore per l’unico compagno di viaggio: se stessi. Cipriani non è nuovo a imprese impegnative, ha partecipato a numerose gare di gran fondo, con percorrenze a tre cifre. Ma per fare 4000 chilometri completamente da solo ci vuole decisamente una marcia in più.

L’idea di arrivare a Capo Nord è desiderio di molte persone, dai motociclisti ai camper, forse qualcuno è arrivato anche a piedi, chissà. A lei come è venuta l’idea? Cioè, se si tratta di una crisi di mezza età, anche una spider rossa sarebbe bastata, no?

«Un caro amico ciclista, Matteo Osti, ha partecipato l’anno scorso a una gara semi-competitiva che si chiama appunto “Nordkapp4000” e con altri due compagni di mille avventure ne abbiamo seguito il percorso con molto entusiasmo. La volevamo fare in tre, era un modo per onorare il papà di uno di noi mancato da poco. Quando mi hanno detto che per loro sarebbe stato impossibile, ormai ero troppo dentro al progetto: avevo studiato la strada, fissato le tappe, individuato dove dormire. Capo Nord mi aveva catturato e ho deciso di andare comunque.»

Ha nominato le tappe. Può darci qualche numero di questa impresa? Oltre ai cinque chili persi…

«Quando sei da solo in bici non puoi permetterti di arrivare al tuo obiettivo e metterti a girare per trovare un hotel o un ristorante. Specie andando verso nord, dove le distanze tra i centri abitati si amplificano. Se ti sei già fatto duecento chilometri in sella, vuoi solo un posto sicuro dove fare una doccia e riposare.

Ho quindi organizzato 22 tappe giornaliere, totalizzato oltre 3900 chilometri e quasi 25mila metri di dislivello (avete letto bene: 25 mila metri – NdA). Stavo in sella mediamente dieci ore al giorno, accompagnato dal mio “Wilson” che sarebbe poi il mini computer da viaggio su cui avevo caricato Komoot, un’app specializzata in itinerari anche fuori strada.

Poi cos’altro… una bici solida, diversi pezzi di ricambio, uno zainetto sulla schiena e altri contenitori sul manubrio, sotto il telaio in mezzo alle gambe e quello più simpatico dietro la sella, una specie di coda che si sviluppa per la lunghezza della ruota. Pochi vestiti, due borracce, casco, luci e una crema “salva didietro” all’ossido di zinco.»

In un simile viaggio, contano molto i consigli di chi l’ha già vissuto. Probabilmente proprio dell’amico Matteo. Qualcosa che vuole condividere con chi volesse imitarla?

«Un consiglio che ho seguito, per la prima volta, è l’uso del doppio pantaloncino, vi assicuro che quello spessore in più si sente, dopo tanta strada. Voglio però dare anche un suggerimento che ho snobbato: montate le prolunghe da viaggio. Quando sei stanco, carichi davanti e appoggiare gli avambracci mi avrebbe forse evitato di avere, ancora oggi, mani e polsi che tremolano.

Io ho preferito circolare sempre di giorno, ove possibile. Ma resta importante avere le luci per i numerosi tunnel, tra cui quello per arrivare al traguardo, quasi sette chilometri sotto il mare, con una lunga discesa iniziale di circa 200 metri e una lunga risalita: il vero, ultimo sforzo.

Una cosa importante ma difficile da allenare è prepararsi a mangiare male, a cibi molto diversi, preparazioni complicate che vanno poco d’accordo con le necessità del metabolismo di uno sportivo. Direi a chi va di fare attenzione, scegliere bene il menu e qualche sera prepararsi da soli qualcosa di simile al cibo di casa. Per quanto siano prodotti diversi, si trova tutto: sarà una cucina elementare, ma funziona.

Un altro aspetto davvero strano è la mancanza di fontane di acqua potabile. Ci sono ciclabili bellissime, strade ampie senza pericoli ma manca l’acqua. Facevo il pieno nei cimiteri, seguendo il suggerimento del mio amico Matteo. Più si sale, peggio diventa. Per assurdo, in Svezia sei circondato da acqua ovunque ma non si trovano paesi per decine di chilometri e bisogna attrezzarsi. E sperare che l’acqua sia buona, non ci sono alternative. Se si viaggia senza un supporto logistico, è un rischio calcolato.»

Al rientro è stato accolto in aeroporto da un comitato rumoroso e festante di amici e conoscenti, una grande soddisfazione per il successo dell’impresa che fa dimenticare i momenti bui. Ma nonostante tutti i nostri dettagliati programmi, poi ci si mette la vita a scombinare tutto. E lei ha rischiato anche di dover rinunciare al sogno.

«Ci sono stati momenti molto duri. Dopo l’entusiasmo iniziale, arriva la fatica e ti chiedi cosa mai ti abbia spinto. Sono quei momenti in cui decidi cosa vuoi essere, se quello che torna indietro o quello che va avanti, nonostante imprevisti e un dannato problema gastrointestinale.

Non riuscivo più a mangiare niente, non trattenevo nulla e avevo perso anche la sensazione di fame. Non avevo nessuno che potesse aiutarmi, ero da solo. Sembra banale ma il cibo è l’unico carburante che hai e non riuscire a mangiare mi aveva distrutto. Insomma, sono sceso a un compromesso e ho preso un autobus fino alla tappa successiva.

Ma non l’ho vissuta come una sconfitta: ci sono cose che puoi combattere e altre no, l’unica sconfitta per me sarebbe stata tornare indietro. Mancavano ancora un migliaio di chilometri, poco nella mia prospettiva. Sarei andato avanti con qualsiasi mezzo. Mi hanno aiutato molto gli amici da casa, il sostegno di mia moglie Angela, dei miei figli. C’era un tifo sfrenato che mi accompagnava tutto il giorno: messaggi, telefonate, ero circondato da affetto e spinte motivazionali.»

Sicuramente i supporter hanno aiutato ma alla fine su una bicicletta si può contare solo sulle proprie gambe. E con tante ore di viaggio davanti ogni giorno, non basta solo quello. Un’impresa del genere, in solitaria per di più, costringe a guardarsi dentro, a conoscere di se stessi forze e debolezze mai sperimentate. La vedo come una sorta di autoanalisi permanente, da cui non si può tornare come si è partiti. È d’accordo con me?

«È vero, non sei quello di prima. Tutto le emozioni nell’abbandono del mondo vengono amplificate, ti arrivano addosso potenti e ti rendi conto dell’importanza che hanno le persone intorno a te, quelle che magari dai per scontate. Ecco allora che ti torna naturalmente un vecchio consiglio della tua terapista, il fatto di non lasciare nulla al non detto con le persone che ami. Dire “ti amo” non è mai banale.

Sono uno sportivo, so di saper sopportare la fatica anche prolungata. Ma ho scoperto di essere capace di mantenere la lucidità nelle crisi, di saper affrontare situazioni nuove e imprevedibili e uscirne con molte bestemmie ma vivo e carico. Penso ad esempio a quando il navigatore mi ha portato in mezzo a una foresta, nel nulla assoluto con l’acqua fino alle caviglie e la bici a spalla. Se in quel momenti riesci a dirti “tranquillo, è mattina presto, hai tutto il tempo per ritrovare la strada” allora hai davvero scoperto in te una forza nuova.

Al tempo stesso, fai i conti con la tua immensa fragilità. Ho pensato spesso alla morte, una cosa che non mi era mai capitata. Pensavo al casino che avrei creato se avessero dovuto recuperarmi, alla solitudine assoluta di quei luoghi. Pensieri che vanno in loop e che devi eliminare per andare avanti. Uno alla volta, ogni volta che si presentano. Come il pensiero del traguardo, del successo finale. Anche quello va cancellato, può avere l’effetto di deprimerti perché conti tutta la strada ancora da fare, ti viene il dubbio che non ce la farai mai.»

Insomma quella testa che ti fa andare avanti, che non ti permette di rinunciare, è anche il peggior nemico. Come si fa a imbrogliare se stessi, a non ascoltare la vocina che dice “fermati, sei matto a infilarti in un bosco da solo”?

«Ci sono tecniche consolidate: ad esempio, darsi dei micro-obiettivi da affiancare a quello della destinazione di tappa. Nella tua testa devi spezzare la lunghezza, pensare di fare una pausa, fermarti a fare delle foto alla meraviglia che ti circonda. Mi davo dei premi mentali e gratificazioni fisiche: tipo, dai tra poco ci dovrebbe essere quel lago o le renne, ti fermi e te lo godi. Mangi qualcosa, ti guardi intorno.

Quando sono stato male, ho aumentato le pause, ogni ventina di chilometri. Ho rallentato ma a quel punto il risultato sportivo passa in secondo piano. Il tuo obiettivo è arrivare. L’unico modo di perdere la sfida contro te stesso è fermarti e questo nel mio caso era fuori discussione. Devi per forza confrontarti con la parte peggiore e migliore di te: sai bene che la situazione l’hai provocata tu, scientemente, e ti rendi conto che non è temporanea: domani sei ancora là e quello dopo sempre in sella. Scopri di essere forte e provi emozioni totalmente nuove.»

Vedo dal suo sguardo che ha portato a casa immagini e sensazioni ancora molto vive. Ci saranno stati incontri con animali e poi quella natura meravigliosa e intoccata.

«Ho scelto spesso itinerari su strade secondarie e molti sentieri, totalmente immersi nella natura. Salendo verso nord, la civiltà si dirada e aumentano gli animali: uccelli, daini e volpi. E le renne, renne ovunque. Ho un ricordo meraviglioso in cui stavo sfrecciando sulla strada, una lama in mezzo a una foresta di conifere altissime, letteralmente adottato da un branco di renne che corre tutto intorno a me. Ti senti molto vicino alla natura, è esaltante.

Speri non ti succeda niente di grave, di non cadere, visto che non hai nessuno in appoggio. Ma tutto intorno a te ti ripaga degli sforzi: sembra di essere sulla luna, lassù dove neanche la vegetazione arriva. Ci sono profumi diversi nell’aria, specie la mattina. Negli ultimi due giorni ho costeggiato il mare di Barents, forte di salsedine e pesce. Da un lato quello, dall’altra una montagna spelacchiata, solo erba e muschi. Colori e odori indimenticabili.

L’ultima notte prima dell’arrivo, ho dormito in una struttura in mezzo al nulla più assoluto, come uno si immagina sia il circolo polare artico. Mi ero fermato perché si diceva si mangiasse bene, a quel punto ne avevo davvero bisogno. A riempirmi davvero però non è stato il cibo, ma l’incredibile fiaba di fronte a me: un piccolo golfo, un villaggio di pescatori con le case colorate, e un promontorio a sovrastare il tutto con due panchine che guardavano l’infinito. Ti metti là e respiri, stai fermo e ti lasci invadere da tanta bellezza. Un posto dove ritrovarsi. O perdersi del tutto.»

Pedalando e soffrendo siamo arrivati a Capo Nord, dove le mancava soltanto un ultimo adempimento, piccolo ma fondamentale. Ci racconta del sassolino colorato?

«Nei giorni prima della partenza, i miei tentativi di carico su una bici tutta strana avevano attirato la curiosità dei vicini, in particolare di Tommaso e Pietro, due bimbi che mi sommergevano di domande. I genitori gli avevano regalato un puzzle dell’Europa e mostrato la strada che avrei fatto. Avevano occhi enormi, il loro stupore di bambini mi ha caricato un sacco! Hanno disegnato un cuore coi loro nomi su un sassolino e un arcobaleno per buona fortuna, chiedendomi di portarlo fin lassù, in cima al mondo.

Mi sono emozionato molto quando me l’hanno regalato, lo faccio ancora solo a pensarci. Ogni sera, appena conclusa la tappa, mandavo loro una foto sempre diversa, con lo stesso messaggio: “il sassolino magico è arrivato a…” seguito dal nome assurdo del posto in cui mi trovavo. E loro seguivano sul puzzle il mio progresso, mettendo chiodini a ogni tappa. Anche questo piccolo rituale quotidiano mi ha sostenuto nell’avventura, sentivo una responsabilità nei loro confronti e quella foto era una sorta di chiusura di giornata. Da Capo Nord ho inviato un video mentre depositavo il loro sasso ai piedi del monumento invitandoli, un giorno, ad andare a riprenderselo. Una specie di punto a capo, un ponte verso il futuro.»

Cipriani avrà anche perso qualche chilo durante la sua lunga avventura ma il bilancio resta decisamente in positivo, con un bagaglio irrinunciabile di emozioni, paesaggi e incontri unici. Torna dalla sua famiglia che gli ha dato la forza di proseguire quando tutto sembrava perduto, dai suoi amici ciclisti che vogliono sentire tutti i dettagli di un racconto epico. La storia di quell’Emiliano “nuovo”, seduto su una panchina di fronte all’infinito.

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