Puntuale come l’orario per sorseggiare una tazza di tè nei sobborghi di Londra, è arrivato un nuovo attacco dei media britannici al rugby italiano. Dalle colonne del «The Times», Stuart Barnes – ex rugbista inglese in campo tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta – ha titolato così la sua rubrica ospitata all’interno del quotidiano londinese: «Keeping Italy in Six Nations is only good for the money men». Vale a dire: mantenere l’Italia nel Torneo “Sei Nazioni” di rugby, è un bene solo per gli uomini d’affari. È bastato questo nuovo editoriale per riaccendere fra gli appassionati, (e purtroppo anche tra chi di rugby non capisce un granché), il tormentone mediatico sulla presunta utilità e sul merito della Nazionale italiana di rugby, di partecipare ogni anno al Torneo più importante dell’Emisfero Nord, che comprende le Nazionali di Inghilterra, Galles, Scozia, Irlanda e Francia.

Barnes argomenta la sua tesi tirando fuori ancora una volta i numeri delle partecipazioni dell’ItalRugby nel “Sei Nazioni”: solo 12 vittorie a fronte di ben 103 partite disputate nell’arco di un ventennio di manifestazioni. Da qui la sua proposta: Italia da estromettere dal torneo. Per il suo bene, ma anche per il bene della competizione stessa.

Sono proprio queste due tesi che lasciano sgomenti gli appassionati della palla ovale. Quale vantaggio potrebbe mai ricavare una Nazionale di rugby a non confrontarsi più ogni anno con alcune formazioni tra le migliori del mondo? Perché per qualsiasi sport, vale una regola aurea: si migliora affrontando quelli più bravi di te, non giocando contro quelli più scarsi. Senza dimenticare, poi, le risorse finanziarie che di colpo verrebbero a mancare alla Federazione italiana rugby, se fosse esclusa dal Torneo.

Ancora: in un contesto economico e sportivo così difficile come quello odierno, quali maggiori profitti potrebbe ricavare il Torneo “Sei Nazioni” privandosi di una squadra partecipante, con la relativa diminuzione delle partite da giocare? Occorre ricordare che stiamo parlando di un torneo privato, organizzato tra sei federazioni che ne sono proprietarie e lo controllano. Non ci sono posti liberi a disposizione, non c’è alcuna volontà, ad oggi, di cambiare il format e, potrà non sembrare vero agli occhi di chi parla di rugby solo tre volte l’anno tra febbraio e marzo, non c’è alcun’altra Nazionale di rugby in Europa più forte di quella italiana, oltre alle altre cinque che partecipano al “Sei Nazioni”.

Barnes, forse più a suo agio 30 anni fa nelle vesti di mediano di apertura che oggi in quelle di commentatore sportivo, non approfondisce questi due aspetti che rappresentano il cuore della sua duplice accusa, alla FIR e agli organizzatori del Torneo.

Che la Federazione Italiana Rugby, negli ultimi 10 anni almeno, abbia sbagliato tante mosse a livello tecnico, infrastrutturale, politico e organizzativo, è fuor di dubbio e le critiche in questo senso – soprattutto se costruttive – è giusto che non manchino mai. Tutto il resto è puro chiacchiericcio da pub. In questo caso, però, senza avere almeno come scusante l’essersi scolati una pinta di birra fresca di troppo, al posto di una più sobria tazza di tè (con latte, of course).