Words like violence
Break the silence
Come crashing in
Into my little world
Painful to me
Pierce right through me
Can’t you understand?

Sono questi i primi versi di una celebre canzone dei Depeche Mode del 1990 e con questo brano di oltre trent’anni fa gli artisti inglesi fa denunciavano, fra le altre cose, la necessità di “godersi”, ciascuno, il proprio momento di silenzio.

Un silenzio che oggi pare essere uno dei grandi lussi – se non il lusso per eccellenza – della nostra frenetica società. Un silenzio che è diventato a dir poco impossibile da ottenere nel nostro mondo, ipertecnologico, motorizzato, privato di qualsiasi forma di quiete. E se questo risulta vero per ciò che è il mondo “esterno” al nostro essere, per certi aspetti risulta ancora più vero al nostro interno. Il silenzio ottenere nella nostra testa, che di fatto non tace mai.

E cos’è il rumore che sentiamo? È quella rete, incontrollabile, di pensieri, che a sua volta è un po’ figlia della tecnologia esasperata che ci pervade.

La vita quotidiana impone di svolgere una serie di pratiche ininterrotte che ha un riflesso sulla nostra attività cerebrale. Un’attività moltiplicata all’ennesima potenza e anche per questa ragione la nostra testa  non smette mai di “parlare”. È questo rumore di fondo, inesauribile, rappresenta forse il peggior nemico della nostra felicità. Ci rende incapaci all’ascolto: di noi stessi, in primis, ma anche dell’altro.

Per vederlo, sentirlo, riconoscere un suo stato di dolore e difficoltà occorre fare un minimo di silenzio. Che è la più assente fra le dimensioni della contemporaneità.

Pensiamoci un attimo. Siamo quasi tutti colpiti da una sorta di horror vacui perenne. Tanto che, quando accidentalmente si crea un po’ di silenzio in un contesto in cui ci sono più persone, cadiamo quasi in imbarazzo. Un imbarazzo che ci costringe a rompere immediatamente quel silenzio.

Noi adulti siamo incapaci di reggere un tempo di silenzio prolungato. Perché il silenzio ci costringe a misurarci con la dimensione della propria interiorità che se c’è interagisce e ci consente di vivere questo come un momento non vuoto. Se non c’è invece l’esteriorizzazione di noi stessi ci porta a cercare famelicamente qualsiasi rumore che ci lasci privi di quel vuoto.

Il rumore perenne si introduce storicamente nelle nostre vite con l’avvento della modernità, dall’epoca industriale in poi, ma anche prima si sentiva l’esigenza di ritrovarsi in contesti che dessero la possibilità alla persona di ritrovare la propria dimensione interiore. Oggi lo è più che mai.

Le polemiche che hanno coinvolto la scorsa estate il Rifugio Chierego sul Monte Baldo e la festa – sicuramente molto rumorosa in un contesto che invece solitamente è fra i più silenziosi – che ha invaso le montagne, ne sono una prova, a prescindere da come la si pensi sull’evento in questione. C’è chi anela al silenzio e vorrebbe preservare almeno quelle pochissime oasi rimaste in questo senso e chi, invece, ritiene che il silenzio non sia un valore, almeno non tale da dover essere preservato sempre e comunque.

Il silenzio invece è vitale. E ce n’è sempre più bisogno. La gente, col tempo, lo percepisce sempre più come l’aria: necessario per respirare. Necessario per poter vivere. Non è certamente un caso se la prima lettera pastorale del Vescovo di Verona Monsignor Domenico Pompili – pubblicata pochi giorni fa – sia interamente dedicata all’esperienza generativa del silenzio.

«In un contesto in cui il rumore sembra avere la meglio, in cui le parole perdono di significato, la nostalgia del silenzio e l’aspirazione a ritrovarlo si acuiscono – è scritto nelle prime righe della lettera – Il silenzio libera dal peso di dover stare sempre sul chi-va-là, restituendoci a una intensa percezione del mondo, lontano dal disincanto in cui si perde l’orizzonte.»

Pompili sostiene che il silenzio sia la chiave per recuperare il senso di profondità nelle nostre vite. Per lui è chiaro che questo è un tema che spinge ad andare controcorrente, e seguire quindi la via del Vangelo, perché «il silenzio è recettivo, non impositivo; è comprendere, non prendere; è contemplativo e proattivo insieme. Vivere concretamente il silenzio, farne l’esperienza, capovolge il nostro sguardo sulla realtà perché svela un’altra postura esistenziale e quindi un atteggiamento pratico diverso.»

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