Doveva essere un pezzo estivo. Un divertissement tra le amichevoli d’agosto e le news di calciomercato, dedicandoci alla hit più ascoltata dell’estate pallonara: la migrazione di stelle, stelline e umili mestieranti del football europeo verso l’Arabia Saudita.

Invece mi sono trovato di fronte ad un argomento che ha aperto più di una porta alla mia curiosità. Che ha messo in crisi la personale certezza di poter arrivare, nell’arco di poche battute, ad una risposta definitiva alle mie domande. Quali saranno gli effetti a medio-lungo termine del passaggio della cometa saudita sul calcio che conosciamo? Siamo davanti ad una bolla speculativa che rovinerà quel che resta di buono nel pallone? Oppure si sta davvero costruendo un nuovo punto di riferimento sportivo?

Come al solito, quando si cala lo sport all’interno di parabole socio-culturali, il caleidoscopio si colora di molteplici tratti e sfumature. Ecco perché, per provare ad essere il più oggettivo possibile, è meglio suddividere il ragionamento su più piani.

Human rights

Anzitutto, sgombriamo il tavolo da dubbi e ipocrisie. Trattasi di sportwashing? Sì, siamo davanti ad uno dei più classici tentativi di ripulire l’immagine di un Paese che mira ad accreditarsi di fronte a mercati e investitori globali. D’altronde, quale leva migliore dello sport più popolare al mondo per un’Arabia Saudita che si ritrova nella lista nera di Amnesty International per la violazione dei diritti umani e, secondo il settimanale inglese Economist, sarebbe “il quinto paese più autoritario al mondo, con una chiara tendenza a reprimere qualsiasi forma di dissenso ed emancipazione”.

Soppressione e imprigionamento della dissidenza. Rapimenti, torture, repressione dell’omosessualità, fino all’assassinio di Jamal Khashoggi. Tutte macchie da cancellare o, quantomeno, da stemperare per Mohammad bin Salman Al Sa’ud, figlio dell’attuale re saudita e principe ereditario, nonché principale sponsor del “Saudi Vision 2030“. Il gigantesco progetto che assorbirà tutti gli sforzi del regno saudita nei prossimi dieci anni.

Il progetto

Qui bisogna necessariamente fermarsi un attimo. Il Saudi Vision 2030, infatti, ha un orizzonte molto più vasto di un campo di calcio . Sviluppo delle infrastrutture, sanità, turismo e istruzione sono le priorità di un percorso iniziato per ridurre la dipendenza economica del Paese dal petrolio. Uno sforzo sostenuto tramite l’ormai famigerato PIF (Saudi Public Investment Fund). Il fondo sovrano per gli investimenti pubblici che dall’inizio degli anni ’70 ha prelevato la maggior parte dei risparmi del regno, derivati dalla vendita di petrolio. Il suo valore è stimato intorno ai 600 miliardi di dollari, circa 550 miliardi di euro.

Per realizzare il proprio obiettivo il PIF sta investendo in città industriali che fungano da futuro polo di attrazione per aziende e cervelli. In ambito turistico, invece, di particolare rilevanza è il progetto “Qiddiyah City” che, tramite esperienze ed attrazioni, aspira a diventare la più grande destinazione turistica mondiale. Un investimento miliardario da far fruttare sull’altipiano desertico nel cuore della penisola arabica, ad una quarantina di km dalla capitale Riyad.

La modernità di Riyad, al centro della penisola arabica

Se parliamo di attrazioni, ecco che lo sport non può mancare. Formula 1, pugilato, arti marziali miste, l’acquisto del Newscastle e gli eventi WWE sono stati solo l’antipasto. A quel punto serviva un grande torneo e, prima del calcio, è toccato al grande golf professionistico. Lo scorso anno infatti è stato lanciato il LIV Golf Tour, che ha attirato lontano dal PGA Tour numerosi professionisti, comprese stelle come Mickelson e Johnson, con pagamenti garantiti anche in caso di scarse prestazioni. Secondo le stime di Forbes sette golfisti della LIV, che si sono classificati tra i 50 atleti più pagati al mondo, negli ultimi 12 mesi e al termine della stagione inaugurale del tour, hanno guadagnato complessivamente 499 milioni di dollari grazie a bonus di ingaggio e premi in denaro.

Al di là delle cifre da capogiro, è chiaro che a muoversi è un intero ecosistema. E proprio qui sta la differenza strutturale e, al momento, sostanziale con l’esperienza cinese, il termine di paragone più citato dai detrattori del progetto saudita. Attorno alla Chinese Super League c’era il nulla. Così, quando il torbido connubio Stato – multinazionali che caratterizza l’intero apparato di management cinese ha visto entrare in crisi le aziende, il calcio è stato abbandonato come assett non più strategico. Tabula rasa.

Saudi Pro League

Per quanto possa suonare strano, nel “deserto nudo, sotto un cielo indifferente” di T.E. Lawrence, lo spazio per il pallone c’è sempre stato. Nella penisola arabica il calcio ha una storia molto più radicata rispetto a Pechino e dintorni. Senza tornare proprio agli albori, i boomer come il sottoscritto ricordano ancora lo slalom di Saeed Al-Owairan contro il Belgio ad USA ‘94. Se poi contiamo che i figli del deserto hanno partecipato a sei delle ultime otto edizioni dei mondiali, è chiaro che una base già c’era.

Detto dell’humus culturale, è interessante d’are un’occhiata al modello di business su cui è stata edificata l’attuale Saudi Pro League. Una catena di comando e un flusso di investimenti molto snelli e diretti. Il PIF ha assunto direttamente il comando dei quattro principali club del regno, dirottando su di essi tutti i maxi investimenti di questi mesi. L’obiettivo dichiarato è rendere Al-Nassr, Al-Hilal, Al-Ittihad e Al-Ahli in breve tempo appetibili ad investitori esteri. Una volta ceduti i club alle proprietà straniere il PIF si potrà concentrare su altri quattro club, sperando di ripetere il tutto.

Particolare anche la gestione dell’area tecnica dei quattro top club e di tutta la Saudi Pro League. A capo di tutto c’è una sola persona, un unico Direttore Tecnico: Michael Emenalo. L’ex terzino della nazionale nigeriana, in campo nell’agonico ottavo di finale americano contro l’Italia, ha ricoperto un ruolo simile al Chelsea tra il 2011 e il 2017 e, ora, è lui a gestire acquisti e smistamento di campioni in Arabia. Pur con le relative differenze, un potere molto più simile a quello di un commissioner nelle leghe professionistiche americane che a quello di qualsiasi altro dirigente calcistico europeo.


Il Prince Faisal Bin Fahd Stadium, casa dell’Al-Nassr, prima di un match (Al-Nassr FC – facebook)

Il progetto saudita attorno al calcio, poi, non si limita a ciò che accade sul campo, ma spazia anche nel digitale. Un po’ di attenzione andrebbe posta anche sul fatto che, secondo il report “Sportswashing – Saudi Arabia 2023” realizzato da Grant Liberty, sarebbero in programma anche 38 miliardi di dollari di investimento negli eSports. Tutto attraverso Savvy Games Group, una società fondata e detenuta dal PIF, per non lasciare inesplorate anche le nuove modalità di fruizione del “prodotto calcio”.

Capite bene che, di fronte a progettualità su questa scala, pensare al pallone di casa nostra, mette un discreto magone. Con un sistema in grado di mutare i regolamenti ogni sei mesi, incapace di vendere i propri diritti televisivi e dove per costruire uno stadio serve più di un intervento divino… siamo così sicuri di poter guardare i sauditi dall’alto in basso in questa maniera?

Il calcio nel deserto

In principio fu Ronaldo, ma sembrava l’ultimo colpo d’ala di un rancoroso monarca in cerca di qualche milione in più. Poi vennero il pallone d’oro Benzema, Neymar e gli altri: li bollammo come vecchi o falliti. Infine vennero a prendere il CT della nostra Nazionale, e lì partì una campagna stampa nei confronti di Mancini che, al confronto, la Pravda era il quaderno di don Milani.

Avete presente quei trailer dove attori e trama non vi convincono, gli insider ne parlano male ma, alla fine, il film andate a vedederlo comunque perché, diamine, il dubbio volete togliervelo? Ecco, con la Saudi Pro League per il sottoscritto è andata più o meno così. E, in entrambi i casi, lo spettacolo si è rivelato quantomeno mediocre.

Tra la maggior parte dei transfughi del calcio europeo e la base del campionato saudita, il divario è troppo ampio. Per quanto ci si sforzi, stelle del pallone che caracollano per il campo al limite della sonnolenza e avversari senza la minima intensità, non possono essere uno show in grado di attirare spettatori e quote di mercato “genuine”. Certo, non che certe nostre partite di C siano la goduria dei sensi, eh. Di sicuro le possibilità economiche per provare ad attirare talenti e crescere nel breve termine ci sono tutte. Così come gli appoggi importanti.

La FIFA e Gianni Infantino non hanno mai nascosto la vicinanza alla dirigenza saudita. La decisione, presa con voto unanime dell’intero consiglio, di far giocare la prossima edizione della Coppa del Mondo per Club proprio in Arabia (dal 12 al 22 dicembre 2023), è lì a confermarlo. La nuova formula che, dal 2025, si aprirà a 32 squadre da tutte le confederazioni del globo, poi, è la sponda che bin Salman attendeva per accrescere l’appetibilità del suo prodotto.

Questione morale

L’ho tenuta per ultima, ma è il primo e principale scoglio che dobbiamo superare per ragionare seriamente sul nuovo calcio d’Arabia. Continuare a focalizzarsi sui “calciatori mercenari” o sui “petroldollari che stanno rovinando il calcio” è l’errore del grande attore del muto che rifugge il sonoro nelle pellicole. O la presunzione della Nokia di non veder mai variare il mercato dei cellulari. Nel caso specifico, l’Arabia Saudita è planata sul calcio con le stesse modalità con cui si sono mosse tutte le principali leghe e dinastie sportive da quando esiste lo sport professionistico.

Intrinsecamente “moderno” fin dalla sua nascita, il calcio è un naturale acceleratore di tendenze e riflessi delle masse. Oggi il grande sportivo non trova più sconveniente associare la propria immagine all’Arabia Saudita. Il rebranding del regno da questo punto di vista funziona. Il grande pubblico generalista non protesta più di quanto abbia fatto per le conseguenze collaterali dei mondiali in Brasile, Sudafrica e Qatar. E il mercato si adegua.

Ai feticisti del “i campioni di una volta non erano così” rispondono le amichevoli-spettacolo e le esibizioni da sempre disputate da tutti i grandi sportivi in grado di muovere denaro. Per restare nella penisola arabica, poi, possiamo tornare all’11 novembre 1987 quando, pur essendo sotto contratto con il Napoli, Diego Armando Maradona partecipò contro il Brondby di Brian Laudrup e Peter Schmeichel a un’amichevole con la maglia dell’Al-Ahli, che festeggiava i suoi 50 anni di vita. Il pibe de oro ricevette un robusto assegno a svariati zeri, riservarono un aereo per lui e il suo entourage e, secondo alcune testate, il manager Guillermo Coppola, chiese ai giornalisti locali importanti mazzette per 10 minuti di intervista.

Maradona, esultante, in un fotogramma dell’amichevole in maglia Al-Ahli

Diego non è certo l’emblema dello sportivo colluso con gli oligarchi del calcio. Anzi, il contrario. In quell’occasione però venne ricevuto anche dal principe ereditario e ricevette in dono una scimitarra con numerosi diamanti e brillanti incastonati nell’impugnatura, uno scudo e una medaglia d’oro. E se l’ha fatto Maradona, anche il calcio italiano può tirare un sospiro di sollievo. D’altronde, a marzo abbiamo firmato un contratto che ci farà giocare lì altre quattro delle prossime sei edizioni della Supercoppa.

Epilogo

Insomma, in Arabia Saudita stanno costruendo un giocattolo dispendioso, e l’idea è quella di farlo durare. Ci riusciranno? Se così fosse, quali prospettive ci sono per il pallone del futuro? Sarebbe bello avere già una risposta. Sfoderare l’arma della storia e del blasone per predire il collasso del progetto arabo. O, in contrapposizione, cavalcare l’onda di un’atea modernità e snocciolare numeri e visualizzazioni degli highlights di questa o quella giocata.

In realtà il fenomeno è ancora in pieno movimento, ed è impossibile dire oggi in quale posizione andrà a stabilizzarsi sul lungo periodo. La sensazione, però, è che senza un rapido livellamento verso l’alto dei valori e l’eliminazione di quell’aura di posticcio che ancora ammanta le tifoserie (quelle sì “modernizzate” a forza) durante i match, difficilmente la Saudi Pro League si sostituirà alle grandi leghe europee e sudamericane. Finchè non vedremo frotte di stelle 25enni, nel pieno del loro prime e in odore di giocarsi la vittoria della Champions, abbandonare i principali campionati del vecchio continente, credo non ci sia da presagire nessun spodestamento. My two cents, sia chiaro.

Se invece ne facciamo una questione più profonda e quanto descritto fin qui ci disgusta. Se pensiamo che investimenti così economicamente insensati rendano sempre più orrendo l’universo pallonaro e vorremmo vedere lo sport allontanarsi anni luce da tutto ciò che profuma di autoritarismo, repressione e discriminazione… meglio armarsi di pazienza e lasciar perdere la sterile retorica.

Perché, anche guardando solo a casa nostra, c’è da rifondare un sistema intero. Ci vogliono idee, investimenti, cultura e strutture. Anni e fatiche. Se decidete di credere e lavorare per questo, sono dalla vostra parte. E pronto a metterci del mio.

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