Sono passati solo pochi giorni dalla morte di Julia Ituma che ha sconvolto il mondo pallavolistico e più in generale l’opinione pubblica. La cronaca, purtroppo, è ben nota a tutti. Aggiungere o dettagliare una vicenda tragica non può cambiare le cose e nemmeno può tentare di spiegare ciò che rimarrà inspiegabile.

Rimestare, indagare le cause di un simile gesto non può aiutare ad evitare altre morti, anche se ci rasserenerebbe fosse davvero così. In ogni caso, all’origine di simili atti ci sono e ci saranno sempre motivazioni complesse, controverse, difficili da analizzare e, in fondo, una dose di imponderabilità e fatalità che sconcerta e a cui è impossibile porre rimedio.

Ciò non toglie che Ituma fosse un’atleta giovane, di vertice, nel giro della nazionale, con un vissuto del tutto simile a qualsiasi altro atleta dotato di gran talento e di qualsiasi altro sport.
Il suo caso, quindi, non può non farci pensare.

Ci illudiamo infatti, purtroppo a torto, che lo sport sia sempre e comunque salvifico. Riflettere è d’obbligo, specie per chi vive da dentro lo sport a contatto coi giovani, anche alla luce delle parole delle compagne di squadra di Ituma, che hanno deciso di salutarla con affettuosi e commossi pensieri, tutti accomunati da un filo conduttore: le difficoltà della vita da atleta.

Lo sport è cambiato

Nell’ultimo trentennio lo sport di vertice è cambiato radicalmente. Il progressivo afflusso di denaro ha introdotto un professionismo di fatto, anche se non sempre riconosciuto legalmente, in quasi tutte le discipline. Questo ha permesso lo sviluppo delle varie attività, ha consentito investimenti, ha evoluto metodologie e tecniche, ha obbligato tutti ad alzare l’asticella.

Non ci si dimentichi, a tal proposito, che la globalizzazione, in contemporanea, ha allargato i confini dello sport, aumentando il numero dei competitor, attratti dalla passione, dai tanti soldi, da rinnovate questioni geopolitiche e dalla fama.

Oggi emergere e primeggiare è dunque più difficile di tempo fa, anche se magari, nei casi di successo, la ricompensa è un tenore di vita invidiabile e invidiato, per nulla paragonabile a quello dei campioni di alcuni decenni addietro.

La strada per il successo

Emergere è dunque di estrema difficoltà, vincere altrettanto. Per arrivare in alto serve maggior sacrificio, serve diventare più forti e non trascurare alcun dettaglio, occorre soprattutto costruire il campione attraverso un lungo e perseverante percorso tecnico, fisico e mentale che non può essere improvvisato o ritardato. Occorre progettare i campioni.

L’esempio più eclatante e noto a livello planetario è quello delle sorelle Williams, Venus e Serena, che hanno dominato il tennis per quasi un ventennio. Vennero avviate dal padre fin dai loro primi anni di vita a diventare campionesse. Un caso di successo, tanti altri i fallimenti, ma che è emblematico di un precetto ormai sdoganato nell’opinione corrente: per vincere bisogna cominciare presto. Bisogna seguire tutti gli step di sviluppo senza indugio alcuno, affidarsi ad una progettualità d’eccellenza e sperare di avere i talenti giusti, e la fortuna, per emergere davvero.

Pochissimi, sempre meno, gli esempi che confutano questa indicazione, per lo più confinati in discipline sportive a minor impatto tecnico (lo sloveno Primoz Roglic che dal salto con gli sci è passato al ciclismo, per citarne uno).

La scalata verso il successo

Per un giovane oggi diventa, quindi, quasi d’obbligo puntare sullo sport fin dalla preadolescenza, periodo della vita in cui lo sport stesso dovrebbe essere, viceversa, sostituito dal gioco, dallo sviluppo delle tecniche e delle esperienze motorie attraverso componenti più ludiche che agonistiche. Invece bisogna accelerare, occorre programmare per tempo. La ginnastica artistica, i tuffi erano le eccezioni per precocità, oggi rappresentano l’approccio normale che accomuna tutti gli sport.

Ecco, dunque, che ancora in periodo di scuola dell’obbligo l’atleta è costretto a migrare verso i centri di formazione sportiva più famosi e qualificati. Viene sradicato dal proprio nucleo di affetti, dalle proprie amicizie e dall’ambiente a lui più familiare per investire sul proprio talento. Palestra, scuola, palestra, gare. In pratica lavoro sportivo, una sorta di college anticipato che solo pochi sono in grado di vivere con serenità piena. Cinque allenamenti e due gare a settimana, questo il “menu” classico di un pallavolista giovane, anche di più in altri sport.

Fin dai 13/14 anni nelle discipline di squadra, ben prima in quelle individuali. E rinunce. Ad una vita normale da adolescente, alla socialità che non sia con il proprio team, alla diversificazione delle esperienze, così importanti per costruirsi una propria identità. Sono rinunce da poco, inezie, per chi ha passione e segue un sogno con pervicacia assoluta, ma chi è adulto sa che, in ogni caso, sono rinunce importanti, che hanno un prezzo.

Una ragazzina si esercita alla trave – La ginnastica è sempre stata una disciplina in cui la precocità estrema è da sempre stata messa in discussione

Il prezzo, forse, non è equo

Il mondo sportivo ha il dovere di interrogarsi se questa richiesta di precocità sia davvero necessaria e, soprattutto, se sia salutare per lo sviluppo della persona, oltre che dell’atleta.
La realtà è che sempre più spesso gli atleti di vertice stanno denunciando gli scompensi che l’anomala vita da sportivo produce.

Ragazzi e ragazze di successo, che sembrano avere tutto dalla vita, ma che manifestano disagi, depressioni, incapacità di guardare oltre lo sport, volontà di un’esistenza normale con meno pressioni, meno logorio. Che ignorano cosa ci sia al di fuori dello sport, che senza sport non sanno che ruolo ritagliarsi, ma che, nello stesso tempo, bramano solo di allontanarsi da quel tipo di quotidianità.

Non lo afferma solo l’atleta viziato dai soldi, da una vita agiata, annoiato del successo, anzi. Lo ha recentemente denunciato, ad esempio, anche Giannis Antetokoumpo, uno dei più forti cestisti del pianeta, uno che da bambino elemosinava di che vivere da clandestino ad Atene. Insomma, non certo il prototipo di uomo senza spina dorsale, senza capacità di tenere duro nella vita. Pure lui aveva pensato al ritiro un paio d’anni fa. Era pronto a rinunciare ad una quarantina di milioni di euro a stagione. Come lui tanti altri, non può essere un caso.

Riaffermiamo che lo sport è complementare alla vita, non la cosa più importante

Se di Antetokoumpo ce n’è uno solo, ci sono migliaia e migliaia di giovani che nemmeno arrivano al vertice. Casi di insuccesso, scarti di produzione che da adulti avranno solo le cicatrici dei sacrifici fatti. E allora c’è da interrogarsi su quale sia l’equilibrio giusto, su quale sia il modo ottimale per praticare sport, anche agonistico, ma in maniera salutare per lo sviluppo della persona.

Oggi la sensazione è che qualcuno stia dimenticando l’equilibrio. Il sistema sportivo lo sta dimenticando. Allenatori, società sportive, sponsor, procuratori, le stesse famiglie, genitori in primis. In tanti, tra loro, sono pronti in fila per utilizzare, sfruttare, i talenti e la passione del giovane di valore che si avvia alla pratica sportiva. Con consapevolezza, a volte, ma più spesso trascinati dal pensiero e dalle abitudini collettive.

Occorre opporsi a questa deriva, occorre ripristinare le giuste priorità. Lo sport è complemento fondamentale della formazione di un giovane, è fuori di dubbio. Non può, però, assumere un ruolo totalitario già dalla preadolescenza.

Se un diciottenne sceglie di fare sport 40 ore settimanali, se decide di farne una professione, ci sta. Ha già un vissuto, è già maturo per scelte di campo consapevoli. Inoltre, si è già formato come individuo. Discorso ben diverso è per i più giovani. A loro non si può indicare il modello professionistico da subito, non si può sostituire il gioco con il lavoro, non si possono bruciare le tappe. Per correre dove poi? Per essere stanchi e sfiduciati già a vent’anni? E dopo aver vissuto solo tra quattro mura di una palestra? No, non può essere un modello applicabile a tutti. La precocità non può e non deve essere l’unico modo per emergere.

Il disagio giovanile ha radici ampie e complesse

Se lo sport ha il dovere di interrogarsi e magari fare autocritica con l’intento di evitare l’esasperazione di certi percorsi formativi, va detto che il disagio giovanile non possa essere addebitato allo sport, anzi, ma che abbia radici ben più ampie e complesse. Viceversa, non dimentichiamoci che, nella maggioranza dei casi, lo sport è salvezza per un giovane, non causa dei suoi mali. Proprio per questo, e con maggior forza, occorre richiamare alle responsabilità etiche e morali di chi vive nello sport e si interfaccia con i giovani. Tali responsabilità oggi, più di ieri, sono centrali nella società civile, forse dobbiamo ancora accorgercene fino in fondo di quanto lo siano.

I casi di disagio giovanile sono in costante aumento. Lo sport può e deve continuare a fare molto, sempre di più

Tornando al caso Ituma

Non sapremo mai se la disgrazia di Ituma, almeno in parte, possa essere dipesa da quella vita da aspirante campionessa che la stava proiettando verso il successo. Una vita che sembrava amare, ma che forse le stava impedendo di mettere fondamenta solide e mature alla propria individualità.

Saper lottare sul campo, spendere sudore per un obiettivo sportivo è una capacità che si allena, che aiuta a sapere combattere anche in altri ambiti, ma a volte è una capacità per nulla traslabile al di fuori dello sport. Altrimenti non sarebbero esistiti i George Best o i Bjorn Borg, i campioni genio e sregolatezza. Geni sul campo, fragili fuori. Ipotesi e suggestioni, nulla di più.

Molte colleghe e amiche di Ituma hanno, però, speso parole forti e delicate su alcuni di questi aspetti. Tra tutte è emblematico il messaggio social di Caterina Bosetti che ha parlato di vita frenetica, di impossibilità di conoscere fino in fondo chi hai al fianco, di necessità di riscoprire l’empatia e la gentilezza nei rapporti, necessità forte anche in un mondo sportivo che dovrebbe mettere al centro relazioni e comunicazione.

Va ricordato, ad avvalorare lo spessore della testimonianza, che Bosetti è per eccellenza la rappresentazione di una carriera sportiva cominciata precocemente, quasi dalla nascita. Figlia di uno degli allenatori (Giuseppe Bosetti) più referenziati del mondo in termini di sviluppo del talento giovanile, sorella minore di Lucia Bosetti, anch’essa atleta di riferimento della nazionale italiana, ha vissuto gran parte della propria vita in palestra, fin da quando era bambina. Bruciare le tappe agonistiche per precocità per lei era quasi scontato. A tal punto che oggi, a 29 anni, pare abbia già vissuto non una, ma cento carriere pallavolistiche.

Tutela della persona

Non si possono trarre conclusioni, specie se certe riflessioni sono scaturite dai dolorosi fatti di cronaca che hanno coinvolto Julia Ituma. Quello che è certo è che lo sport, se si assume il diritto di chiamarsi tale, non possa prescindere dalla tutela della persona. Vittoria, successi e ambizione devono essere coniugati con la salute psicofisica degli atleti.

Cultura sportiva è soprattutto questo e oggi, viste le crescenti fragilità che le giovani generazioni sembrano manifestare, tali considerazioni diventano ancora più imprescindibili. A tal punto da far apparire del tutto fuori luogo gli ideali dell’infallibilità e i modelli dell’atleta “bionico”, dello sportivo come divinità da adorare, riferimenti che tanto hanno spopolato negli ultimi decenni, anche a causa del crescente sfruttamento dell’immagine sportiva per finalità commerciali.

Serve un cambio di rotta, per lo meno al di fuori dello show business.

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