Ė il minuto novantatré di SpeziaChievo. Sul 3-0 che qualifica i padroni di casa alla finale playoff di serie B, Maxime Leverbe si appresta a calciare un rigore assegnato ai gialloblù. La trasformazione manterrebbe vivo l’ultimo lembo di possibilità della promozione per la squadra di Alfredo Aglietti.

Il difensore francese avanza e raccoglie il pallone. Con coraggio, lo piazza sul dischetto davanti alla Curva Ferrovia dello stadio “Picco”. Prende la responsabilità dell’esecuzione. Per lui, il suo collega di reparto Michele Rigione e tutti i loro compagni è stata una serata difficile. Non è bastato dar fondo alle esigue risorse fisiche a disposizione. L’avvio veemente della formazione di Vincenzo Italiano li ha tramortiti sul piano psicofisico, a compendio di un tour de force di gare ravvicinate che ha  finito per favorire chi aveva innazitutto la possibilità di avvicendare un numero ampio di giocatori di esperienza in categoria, giustappunto lo Spezia.
In quei minuti tra la realizzazione di Leverbe, la corsa di Ongenda a recuperare il pallone in rete, il disperato tentativo di riconquistar palla e provare a segnare ancora  prima del triplice fischio del direttore di gara, sono idealmente passate rapide nella mente le immagini di una stagione in cui, proprio il difensore centrale cresciuto nell’Ajaccio e con alle spalle – prima della sua avventura in gialloblù – una manciata di gare in C con l’Olbia, ne ė stato per certi versi tra i giocatori più rappresentativi. 

Inesperto, timido, preoccupato al suo debutto con la maglia del Chievo un anno fa in quel di Perugia, Maxime è cresciuto al punto di diventare un giocatore insostituibile. Fino ad assumersi la responsabilità di un penalty potenzialmente fondamentale, in un momento in cui con lui in campo c’era un undici composto da tanti compagni la cui somma delle presenze tra i pro è inferiore a quella singola di Mora o Galabinov.

Una squadra di ragazzi capaci di andare oltre l’inesperienza e la stanchezza e riuscire comunque a dare alla propria squadra quell’ultima piccola speranza.

In quei tre minuti si è rivisto inconsciamente il film di una stagione partita tra paure, desideri e speranze. Sono scorse via le immagini delle prestazioni convincenti contro le formazioni più forti ma anche i ricordi dei punti persi in quelle gare contro avversarie poi retrocesse che alla lunga avrebbero inciso sul bilancio finale. Pensieri dolceamari che conducono anche a quella direzione di gara contro gli spezzini in campionato al Bentegodi che chissà quanto potrebbe aver modificato gli equilibri prima della volata playoff. 

Pur con l’apporto altalenante degli elementi più esperti, penalizzati dalla condizione fisica e al netto anche delle uscite post-lockdown, Alfredo Aglietti ha portato il Ceo ad un gol dalla finale playoff. Un merito incancellabile e incontestabile, a prescindere dalle speranze di un repentino ritorno nella massima serie. Michele Marcolini prima e il mister toscano poi hanno lavorato in un contesto per alcuni versi in emergenza, nel pieno di una fase di ricostruzione di un club che ė stato rappresentato da un gruppo di ragazzi dalle storie eterogenee formato da atleti stagionati, professionisti della categoria, giovanotti alla prima vera occasione della carriera, prestiti senza diritto di riscatto, calciatori che per curiosi incroci del destino si sono trovati sul campo in gialloblù. 

Autorevole e caparbio come potrebbe essere un colonnello di un battaglione della Legione Straniera, Aglietti ha guidato e motivato il suo gruppo a dare tutto ciò che aveva e per alcuni versi andare oltre i propri limiti. Smaltito il rammarico, il Chievo di domani dovrebbe ripartire da qui.

(Foto Maurilio Boldrini / AC ChievoVerona)