A Bruna Bianchi, che è stata professoressa di Storia delle donne e del pensiero politico contemporaneo presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, chiediamo qual è il significato che dobbiamo dare all’8 marzo?

«Come ogni anno l’8 marzo è occasione per riflettere sulla condizione delle donne nel mondo, una condizione in cui povertà, schiavitù e violenza sono strettamente intrecciate. Un rapido sguardo alla condizione femminile sulla base dei rapporti internazionali ci presenta un quadro drammatico. A livello mondiale la maggior parte delle persone considerate povere sono donne, così come la maggior parte delle persone analfabete. In Europa, dove secondo un recente rapporto del Wuppertal Institut, il 23,3 per cento delle donne e il 50 per cento delle immigrate sono a rischio di povertà e di esclusione sociale, le ore impiegate nel lavoro domestico e di cura rappresentano una percentuale consistente di tutte le ore lavorate, un lavoro invisibile, non riconosciuto, posto al di fuori dell’economia.

Nei Paesi del Sud del mondo le donne compiono gran parte delle attività necessarie alla sussistenza, ma non hanno accesso alla terra e al credito che in misura minima né hanno voce nelle decisioni delle comunità dove sono gli uomini a definire valori e diritti. Mancanza di accesso alla terra significa mancanza di controllo sulla propria fertilità. La condizione di precarietà e dipendenza, infatti, induce le donne ad avere più figli di quanti ne desiderino e sono più vulnerabili rispetto alla violenza domestica e agli abusi sessuali. Povertà e discriminazione alimentano la tratta a scopo di prostituzione, un turpe mercato che coinvolge 175 Paesi e che riduce ogni anno in schiavitù sessuale milioni di donne, tra cui molte bambine, inviate per lo più nei paesi del Nord dove l’accesso a prestazioni sessuali a pagamento è considerata una servitù irrinunciabile, occultata e taciuta nel discorso pubblico.

Bruna Bianchi

Quando i processi avviati dal neoliberismo rendono difficile per le donne contribuire alla sussistenza delle famiglie, esse sono considerate un peso, non desiderabili come mogli se non portano con sé la dote, così che in molti paesi si compie una delle più terribili violenze mai perpetrate contro le donne, ovvero la scelta di non farle nascere. All’inizio del secolo circa 60 milioni di donne mancavano all’appello della demografia mondiale e da allora la situazione è andata ulteriormente peggiorando.

Le donne inoltre sono le prime vittime del degrado ambientale, dei programmi di sviluppo (dighe, economia di piantagione, sfruttamento del legname) e del cambiamento climatico. Donne e bambini sono le principali vittime delle guerre e rappresentano la percentuale più elevata della popolazione profuga. Ovunque, il proliferare dei conflitti e dei programmi di riarmo, dando nuovo vigore al culto della forza, erodono gli spazi di libertà delle donne, mortificano la loro dignità, svalutano i valori della cura e della difesa della vita, accrescono la violenza.

Ma la violenza alle donne è pervasiva, sistematica e brutale anche in tempo di pace. Violenze sessuali, domestiche e femminicidi sono in aumento».

Si discute molto del linguaggio di genere: sindaca, presidentessa tanto per fare degli esempi. E poi Giorgia Meloni vuole essere chiamata IL Presidente del Consiglio. Questo sta portando a qualcosa?

«Da anni ormai il tema della lingua inclusiva è al centro degli studi, delle proposte e delle pratiche in ambito femminista e linguistico. Già nel 1989 l’illustre linguista Giulio Lepshy così illustrava l’importanza della questione: “Mentre gli uomini sentono che la lingua manifesta nello stesso tempo sia la loro condizione di esseri umani sia la loro condizione di maschi, le donne trovano che la stessa lingua non corrisponde ugualmente alla loro condizione specifica di donne e che perciò è inficiata anche la sua presunta universalità umana”.

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Quando Giulio Lepschy scriveva queste parole erano trascorsi due anni dalla pubblicazione a cura della Presidenza del Consiglio dei ministri del volume della linguista Alma Sabatini Il sessismo nella lingua italiana promosso dalla senatrice e allora ministra per le Pari Opportunità Tina Anselmi. Il volume conteneva alcune importanti raccomandazioni per un uso non sessista della lingua, individuava le espressioni da evitare e proponeva alternative. Come Giulio Lepschy, Alma Sabatini sosteneva che la lingua non si limita a manifestare il nostro pensiero, ma lo condiziona: essa riflette e nello stesso impone una visione del mondo basata sulla centralità e universalità dell’uomo e sulla marginalità e parzialità della donna. Eppure, nonostante i numerosi studi e raccomandazioni che si sono succedute nel corso di oltre 30 anni, nella pratica si è manifestata una forte resistenza al cambiamento tanto che oggi si può affermare che il femminile stia sparendo dalla lingua, in particolare nel discorso pubblico e nella comunicazione amministrativa. Questo fenomeno è il riflesso della subordinazione delle donne nella società, della resistenza all’accesso delle donne a molte professioni e si traduce in una mancanza di rispetto nei confronti di tutte le cittadine.

I termini che si riferiscono ai ruoli di responsabilità, infatti, sono sempre più insistentemente declinati al maschile in aperto disprezzo verso quelle regole grammaticali che, quando non è implicata una differenza di genere, sono generalmente osservate. Questa tendenza insinua e rafforza l’idea che quei ruoli siano appannaggio degli uomini e che debbano restare tali anche quando vi sono ammesse un certo numero di donne.

Un uso della lingua non rispettoso delle differenze di genere è tuttora una delle forme di discriminazione più diffuse e nello stesso tempo la meno percepita come tale».

Le quote rosa in politica sono utili?

«Al di là di numeri solo una nuova visione della politica e della democrazia potrà portare a un reale mutamento. Il pensiero occidentale è ancora legato all’idea di democrazia della tradizione greca: una attività maschile elitaria, separata dalla casa e dalle incombenze quotidiane affidate a donne e schiavi, una occupazione di uomini liberi nella polis, la casa degli uomini. Quella casa non muterà i suoi caratteri neppure se vi entrerà un maggior numero di donne. È la sua separazione dalla vita quotidiana a costituire il problema, è la convinzione che la sfera della libertà si trovi oltre quella della necessità.

La democrazia, al contrario, dovrebbe essere intesa come un agire volto a garantire i fondamenti della vita, una quotidianità fatta di cura, solidarietà e compassione. Possiamo pensare alla democrazia come una forza capace di infrangere le barriere, superare le contrapposizioni, trasformare le relazioni di dominio e consentire la piena espressione della socialità. Per mettere in atto questi processi, che possono avere origine solo dal basso, è necessario che uomini e donne dei Paesi del Nord del mondo vogliano fermare la privatizzazione di terre comuni e spazi pubblici, creare nuove comunità, astenersi da tutti quei consumi che contribuiscono allo sfruttamento delle donne o che mantengono e promuovono immagini sessiste».

Lei ha insegnato per tanti anni storia delle donne studiando l’evoluzione delle lotte femminili, come definirebbe il momento che stiamo vivendo?

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«Nella situazione attuale, per quanto difficile e drammatica, le donne sono alla testa dei movimenti: quelli per la loro dignità e libertà, per la giustizia climatica ed economica, in difesa della natura e dei diritti degli animali, contro il militarismo e le politiche neoliberiste che distruggono la vita sul pianeta e alimentano i conflitti armati. Ne sono un esempio le lotte delle donne indigene in America Latina contro le violenze alle comunità e ai territori, quelle delle donne africane per il diritto alla terra e contro il land grabbing, quelle delle donne indiane in difesa delle foreste e delle acque e l’elenco potrebbe a lungo continuare. Nei paesi del Nord non si può non ricordare il movimento promosso e guidato da Greta Thumberg, la giovane che ha dimostrato che anche una singola persona di qualsiasi età, con una forte tensione etica e determinazione può portare all’attenzione del mondo un problema cruciale per la sopravvivenza. Negli Stati Uniti sono state le donne a fondare il movimento Black Lives Matter contro l’odio e il razzismo; in Russia sono le femministe del FAR (Feminist Resistance Against the War) le protagoniste della protesta contro la guerra.

Le donne impegnate nei movimenti contro la guerra, che oggi si trovano ad affrontare forze tanto soverchianti da indurre un senso di impotenza e di paralisi, possono trarre ispirazione dai movimenti contro il nucleare degli anni Ottanta in cui le donne riuscirono a incanalare le loro paure nell’azione, a liberare la loro rabbia e la loro creatività, in cui acquisirono il senso del loro potere e la consapevolezza di poter fare la differenza. Ripercorrere quelle esperienze che si svilupparono in un momento per molti versi simile all’attuale, segnato dalla minaccia nucleare e dalla distruzione planetaria, può indurre una nuova fiducia nella possibilità di affermare il potere costruttivo femminile contro quello della distruzione».

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