L’argomento delle pensioni è tra i più caldi dell’agenda politica, un tormentone che interessa almeno 22 milioni e mezzo di italiani con più di 55 anni e pesa sulle casse dello Stato per 312 miliardi di euro annui (tanti sono stati quelli spesi in pensioni nel 2021).
E non c’è governo che non metta le mani sulla normativa previdenziale, che tra riforme e controriforme è divenuta negli anni un vero e proprio labirinto in cui è difficile orientarsi.
Quando ci si può ritirare dal mondo del lavoro? Come vengono calcolati gli assegni previdenziali? Quanto spende lo Stato in pensioni? I giovani avranno una pensione?

Un’idea recente

In passato, il sostentamento delle persone anziane era tradizionalmente demandato alle loro famiglie, e le fasce più indigenti della società potevano contare esclusivamente sulle associazioni di carità di stampo religioso e sugli enti di beneficenza pubblica e privata.
Il concetto di pensione, ossia l’idea di corrispondere una somma fissa alle persone più anziane, si è tradotto in una legge nazionale solo nel 1895, con il Regio decreto che raccolse le disposizioni sulle pensioni degli impiegati dello Stato.

Un sistema “obbligatorio”

Molti paesi – compreso il nostro – hanno inizialmente adottato sistemi pensionistici volontari, salvo rendersi successivamente conto che i versamenti di pochi non erano sufficienti a tutelare tutti gli anziani che necessitavano di prestazioni pensionistiche o di altre forme di sostegno economico.
Per questo motivo, in Italia si è successivamente passati a un sistema di tipo obbligatorio: nel momento in cui si inizia un’attività lavorativa occorre iscriversi a un ente pensionistico-previdenziale, come l’Inps o le Casse dei liberi professionisti. All’ente si versa, sotto forma di contributi, una parte del proprio reddito che viene destinata alla pensione del futuro.

Si inizia versando i contributi

L’ammontare dei contributi che mettiamo da parte per la pensione è calcolato sulla base della cosiddetta aliquota di computo.
Non tutti i lavoratori, però, contribuiscono nella stessa misura. L’aliquota di computo, infatti, non è identica per tutti gli iscritti ma viene stabilita per legge a seconda del lavoro svolto e dell’ente previdenziale di riferimento.
Per i lavoratori dipendenti l’aliquota è pari al 33 per cento della retribuzione percepita. Quindi, se ricevo una retribuzione di 32 mila euro annui, metterò da parte per la mia pensione futura 10.250 euro di contributi.
Per gli autonomi si viaggia da sempre su un’aliquota più bassa, anche se la riforma Fornero ha rivisto gradualmente al rialzo le percentuali. Attualmente siamo tra il 24 ed il 25 per cento del reddito, a seconda del profilo del lavoratore.
Possiamo conoscere l’elenco di tutti i contributi versati all’Inps consultando gratuitamente il nostro estratto conto contributivo sul sito dell’ente, a cui è possibile accedere con SPID o carta d’identità elettronica. È importante farlo, per avere un quadro preciso della nostra posizione previdenziale e scoprire tempestivamente eventuali discordanze o anomalie da segnalare all’Inps.

Un patto intergenerazionale

Questo non significa che i contributi versati dal lavoratore vengono accantonati fino al momento della pensione. L’Italia, infatti, adotta un sistema pensionistico “a ripartizione”: sulla base di questa impostazione, i contributi versati agli enti di previdenza in un determinato periodo vengono utilizzati, in quello stesso arco temporale, per pagare le pensioni di coloro che hanno già lasciato l’attività lavorativa.
Si tratta quindi di un sistema fondato su un forte patto intergenerazionale, in quanto l’equilibrio tra entrate e uscite è garantito dal fatto che gli attuali lavoratori, attraverso i loro contributi, sostengono le prestazioni pensionistiche di chi è già andato in pensione; a loro volta, i lavoratori di oggi vedranno pagate le proprie pensioni grazie ai lavoratori del futuro, e così via.

Due metodi di calcolo

Il metodo di calcolo dell’importo dell’assegno pensionistico è cambiato radicalmente nel 1995 con la riforma Dini, che ha rappresentato il momento di svolta della previdenza italiana con il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo.

Il (generoso) sistema retributivo…

Nel regime retributivo la pensione corrisponde a una percentuale dello stipendio del lavoratore: essa dipende, in particolare, alle retribuzioni percepite nell’ultimo periodo della vita professionale.
Si sa che gli ultimi stipendi di un lavoratore tendono ad essere più elevati. Ai “nonni di oggi”, quindi, per assicurarsi una buona pensione era sufficiente gestire bene l’ultimo miglio: se anche ci si rendeva conto di aver dichiarato redditi bassi nella propria carriera, bastava “rimediare” negli ultimi anni per costruirsi comunque una rendita pensionistica dignitosa.

…e i dolori del contributivo

Con il progressivo aumento della durata media della vita (che determina un allungamento del periodo di pagamento delle pensioni) e il rallentamento della crescita economica, le regole di determinazione delle pensioni sono state riviste per garantire la sostenibilità dei conti pubblici.
Con la riforma Dini si è passati al sistema contributivo, meno costoso per le casse dello Stato rispetto al retributivo.
Un regime che funziona più o meno come un libretto di risparmio, all’interno del quale il lavoratore accantona annualmente i contributi: sarà il totale dei contributi versati, a cominciare da quelli accumulati in occasione delle primissime esperienze di lavoro, a determinare l’effettivo importo della pensione.
Il passaggio al contributivo è avvenuto in modo graduale, distinguendo i lavoratori in base all’anzianità lavorativa.
Il nuovo regime di calcolo è stato applicato a chi iniziato a lavorare a partire dal 1° gennaio 1996. Ai lavoratori che a fine 1995 avevano maturato meno di 18 anni di contributi è stato attribuito un regime misto, cioè retributivo fino al 1995 e contributivo per gli anni successivi. Chi aveva superato i 18 anni di anzianità contributiva ha invece mantenuto il regime retributivo.
Dal 1° gennaio 2012 la riforma Fornero ha esteso il sistema contributivo a tutti i lavoratori.

L’importanza di una pianificazione previdenziale

I tasti dolenti del metodo contributivo sono essenzialmente due.
Il primo, non direttamente sotto il controllo del lavoratore, è che – come vedremo – l’importo della pensione è correlato all’andamento dell’economia del Paese e alla speranza di vita.
Il secondo “guaio” riguarda proprio il fatto che tutti i contributi versati sono essenziali al fine di costruirsi una buona pensione: se si versa poco o nulla, si pregiudica l’importo dell’assegno. E, a differenza del sistema retributivo, poi diventa molto più difficile recuperare.
Pensiamo a chi non versa contributi perché svolge la propria attività “in nero”. Oppure ad un giovane che, nella prima fase della carriera, percepisce stipendi bassi, o lavora a singhiozzo a causa del precariato, o non lavora proprio.
I buchi contributivi diventano così un grosso problema, perché espongono al rischio di essere dei pensionati “poveri” o di dover addirittura lavorare più a lungo per poter andare in pensione se non si è raggiunto l’importo minimo prefissato dalla legge. Per questo è essenziale pianificare fin da giovani il proprio futuro previdenziale, ad esempio dotandosi di una soluzione pensionistica integrativa.

La rivalutazione dei contributi

I contributi versati durante la fase lavorativa vanno a formare il cosiddetto montante contributivo, che altro non è che il “tesoretto” accumulato dal lavoratore sul quale, a fine carriera, verrà calcolato l’assegno previdenziale.
Ai contributi accumulati dal lavoratore viene riconosciuta una rivalutazione annuale collegata all’andamento del prodotto interno lordo (Pil). La rivalutazione si calcola sulla base di un tasso comunicato annualmente dall’Istat, il cosiddetto tasso di capitalizzazione, che è pari alla variazione media del Pil nei cinque anni precedenti.
In soldoni: meno cresce l’economia italiana, più basso sarà – a parità degli altri parametri – l’importo della pensione.

Nebbia fitta per i giovani

Proprio a causa dell’andamento del Pil, i valori si sono progressivamente ridotti. Dal 1996, quando il tasso medio di rivalutazione si aggirava intorno al 6 per cento annuo, si è passati praticamente quasi a zero. Il tasso pubblicato dall’Istat a fine 2022, ad esempio, porta a una rivalutazione pari allo 0,9973 per cento.
La fascia più adulta della popolazione in qualche modo si salva, perché al momento della pensione beneficerà degli anni in cui i tassi di capitalizzazione erano più floridi. La situazione è invece più fosca per i giovani, il cui montante è destinato a restare sostanzialmente al palo.

Se il tasso va in negativo

A fronte di una variazione negativa del Pil il tasso di capitalizzazione può anche risultare negativo (ed effettivamente è successo, nel 2014 e nel 2021). Tuttavia la legge prevede che, in questi casi, lo Stato corra in soccorso applicando un tasso “neutro” di variazione a zero, e impedendo così la svalutazione del montante contributivo maturato.
La parte “coperta” da questo intervento verrà recuperata sottraendola dal tasso di capitalizzazione dell’anno successivo (se positivo).

Dal montante alla pensione: i coefficienti di trasformazione

A fine carriera siamo pronti per conoscere l’importo della nostra pensione. Per farlo, dobbiamo prendere il montante accumulato durante la vita professionale (che nel frattempo, come abbiamo visto, è stato rivalutato anno per anno) e moltiplicarlo per il cosiddetto coefficiente di trasformazione.
Si tratta di un parametro che varia a seconda dell’età del lavoratore alla data di raggiungimento dei requisiti pensionistici, premiando di fatto quanti vanno in pensione più tardi. Maggiore è l’età in cui il professionista decide di uscire dal mondo del lavoro, più elevato risulta il valore del coefficiente e, quindi, più alto sarà l’assegno previdenziale.
Lo Stato aggiorna i coefficienti ogni due anni in base alle rilevazioni Istat sull’andamento delle aspettative di vita.

Perché si adeguano i coefficienti?

La necessità di adeguare i coefficienti è legata al fatto che l’incremento della speranza di vita, se è positivo per noi, non è positivo per il nostro sistema previdenziale, che dovrà erogare pensioni per un periodo di tempo più lungo.
Inoltre, se si lavora di più (perché magari lo Stato alza l’età pensionabile) e si versano quindi più contributi, il mancato abbassamento dei coefficienti di trasformazione porterebbe al calcolo di pensioni più elevate.

I coefficienti di trasformazione rappresentano così un importante stabilizzatore del sistema pensionistico, attraverso cui lo Stato gestisce gli effetti delle dinamiche demografiche.
Da notare che l’ultimo aggiornamento dei coefficienti (avvenuto con decreto dello scorso dicembre) ha visto, per la prima volta dalla loro introduzione, un rialzo. Colpa della pandemia da COVID-19, che ha provocato un rallentamento della speranza di vita calcolata dall’Istat. Questo inciderà positivamente sugli importi degli assegni per i pensionamenti del biennio 2023-2024.

L’adeguamento delle pensioni

Una volta che si inizia a percepire la pensione, la legge prevede un adeguamento periodico e automatico degli importi collegato all’inflazione, allo scopo di proteggere il potere d’acquisto e assicurare ai pensionati un tenore di vita adeguato nel tempo.
I valori di riferimento per questa rivalutazione sono individuati sulla base dell’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati.
L’indicizzazione non è uguale per tutti: in linea generale, la rivalutazione è piena per le pensioni più basse e parziale per quelle di importo superiore.

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