Abbiamo bisogno di un libro che parli dei “pregiudizi prima dei giudizi”? Abbiamo bisogno di interrogarci ancora e ancora sugli stereotipi e in particolare su quelli di genere? Abbiamo bisogno di leggere estratti di sentenze emesse dopo alcuni processi per  violenze e abusi sessuali? Abbiamo bisogno che una giudice ci racconti il percorso, durato quasi vent’anni, che l’ha portata ad accorgersi del pregiudizio collettivo che travolge le donne vittime di violenza maschile?

Si, abbiamo bisogno di indossare le “lenti di genere” per poter stanare gli stereotipi inconsapevolmente introiettati e per poter vedere e disarticolare discorsi spesso unitamente condivisi perché culturalmente accettati.

Paola di Nicola, giudice penale, nominata Wo/Men Inspiring Europe 2014 (European Institute for Gender Equality, un’agenzia dell’Unione Europea che si adopera per rendere l’uguaglianza di genere una realtà) nel suo libro “La mia parola contro la sua” ci aiuta non solo a svelare le scorciatoie mentali che depistano e rovinosamente conducono ad alimentare comportamenti e pensieri distorti nei confronti delle vittime di violenza, abuso e femminicidio; ma propone anche una riflessione dietro l’altra sostenuta da una leggerezza fatta di competenza e professionalità ma soprattutto di quella consapevolezza, conoscenza e cultura, che permettono di vedere le cose per come sono e non sulla base di un inconsapevole “è sempre andata così”.

Per far questo parte proprio da sé stessa, dal proprio lavoro e dalla propria vita personale  per poi interrogarsi, già al secondo capitolo, sui pregiudizi nei confronti degli uomini; chiede a loro un supporto, forte della convinzione che solo lavorando insieme sia possibile aprire nuove strade per cercare di risolvere il problema della violenza di genere.

Rivolge quindi agli uomini delle richieste: dal diventare partigiani coraggiosi, al credere alle cose orrende che le donne talvolta vedono, ascoltano o subiscono; chiede agli uomini di essere i primi a chiamare le forze dell’ordine se sentono le urla provenire dalla casa dei vicini; chiede loro di usare le parole al femminile “perché anche se so bene che per voi non è importante per stimarci e apprezzarci, per noi lo è perché ci fa esistere e prendere forma in un silenzio durato millenni”. Quello stesso silenzio che caratterizza la reazione di molte donne vittime di violenza maschile facendole così apparire e quindi spesso giudicate come sessualmente disponibili e consenzienti al sesso forzato. Perché, per essere tale, una vittima deve essere perfetta, deve rispettare un manuale della credibilità che ruota attorno ad una regola principale: quella della corretta condotta, differenziandola così da qualsiasi altra vittima di reato.

Emerge così che la violenza contro le donne è invisibile alle stesse vittime, è sottile, uno stillicidio esercitato giorno dopo giorno, al quale ci si abitua arrivando a considerare normali i maltrattamenti e gli abusi. Finché non si raccoglie il coraggio di denunciare o di chiedere aiuto; molto spesso dopo un periodo di  tempo, quello che serve a chi ha subito, per rendersi conto di dove si trova e di cosa sta vivendo. Un tempo che serve per superare la vergogna e la paura di non essere creduta o di essere ulteriormente umiliata nelle drammatiche domande e affermazioni  che la vedono, per esempio, approfittatrice e bugiarda.

È un tempo necessario, che talvolta è a più riprese perché è difficile uscire dalla melodia dell’abitudinaria sottomissione al dominio. Ma, forse, è proprio in queste riprese temporali che le istituzioni hanno il dovere di accogliere, di aiutare e non giudicare banalizzando, di credere e non dubitare superficialmente della bontà di una denuncia, anche una sola, se consapevoli della profonda fatica fatta da una vittima per arrivare fino a qui.

Tutto questo può sembrare incredibile e, contemporaneamente, famigliare. Ora abbiamo indossato le lenti di genere e scopriamo di ri-trovarci nel mare degli stereotipi che non pensavamo di avere. Sentiamo la fatica fatta per averli riconosciuti e forse un po’ di smarrimento per il medesimo motivo; ma, contemporaneamente, avvertiamo la possibilità di sciogliere questi vincoli per salpare verso acque in cui uomini e donne possono stare l’uno a fianco dell’altra in un dialogo dinamico e non violento. E’ un percorso salvifico che porta all’incontro del maschile con il femminile, necessario a ciascuno di noi, uomini e donne, vittime e carnefici.

 Parafrasando Mirco Cittadini, studioso veronese di Dante, possiamo dire: come accade a Dante che, attraverso Beatrice, si assume la responsabilità del suo maschile e integra il femminile dentro di sé.

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