Domenica 20 novembre, tra una settimana esatta, prenderà il via un Mondiale che nessuno, oggi, sembra volere. Qatar 2022 è il figlio reietto e disconosciuto un po’ da tutto il mondo del pallone. Per la questione dei diritti umani violati, per la stagione spezzata a metà, per gli infortuni o per l’assurdità di vedere una partita giocata con l’aria condizionata. Le ragioni sono molteplici e variegate.

Prima di farci risucchiare dal loop delle partite che si susseguono senza soluzione di continuità e dei boicottaggi ideologici da salotto, non sarebbe male fare un passo indietro. A quando il viaggio verso il deserto è iniziato. Ad un dicembre di dodici anni fa. Quando il Campionato del mondo è stato assegnato e il sistema calcio ha rischiato di deflagrare su sé stesso.

L’assegnazione

La data è il 2 dicembre 2010, un giovedì anonimo che non lascerebbe tracce visibili, se non fosse per una riunione di un certo livello che si sta tenendo a Zurigo. La FIFA è rinchiusa nelle alte stanze del potere e sta per assegnare i Mondiali del 2018 e del 2022. È la prima volta in assoluto che, nella stessa giornata, si vota per attribuire due edizioni.

Fino a quel momento, infatti, si era sempre seguito un criterio di alternanza tra le varie confederazioni. Per le rassegne successive a quella brasiliana del 2014 lo schema cambia e, con esso, le pretendenti. Ci sono due sedi che vengono date come strafavorite rispetto alle altre. L’Inghilterra per il 2018 e gli Stati Uniti, che puntano tutte le loro fiches sul 2022. Lo sanno tutti e il voto sembra una pura formalità.

Il primo scrutinio per il 2018, invece, mette subito la Russia davanti agli albionici e a tutti i restanti pretendenti. Seconda votazione e Putin può prendere il primo aereo per Zurigo e festeggiare. Tra i delegati non c’è nemmeno il tempo per tirare il fiato che si parte con la conta per il 2022. Qui lo shock è più forte. Il Qatar fa subito incetta di preferenze e, nonostante il tentativo USA di pigliarsi i voti della Corea, alla quarta tornata chiude la pratica. Il Mundial vola a Doha.

Chuck Blazer, l’americano

La sede della FIFA a Zurigo

A questo punto bisogna mettere in pausa il racconto degli eventi, fare un volo intercontinentale e introdurre un nuovo personaggio. Si chiama Chuck Blazer, è americano e, all’epoca dell’assegnazione dei mondiali, è segretario generale della Concacaf e membro del Comitato esecutivo della FIFA. Negli ultimi trent’anni ha trasformato il calcio a stelle e strisce in un prodotto che le televisioni si combattono a suon di milioni. Che intasca anche lui. Lo chiamano “mister 10%”, per la sua percentuale di entrate su qualsiasi contratto che veda in calce la sua firma. Una regola che gli ha permesso una vita di lussi sfrenati, si favoleggia addirittura di un appartamento nella Trump Tower di New York affittato a 20mila dollari al mese come cuccia per i suoi gatti. Americani.

Un affare di soldi e potere

Torniamo a Zurigo. La votazione è appena terminata e l’assemblea, in buona parte, è abbastanza scossa. Londra e Washington si sentono defraudate e annunciano che faranno partire delle indagini. Tra i delegati presenti ci si guarda di sottecchi. I primi a farlo sono proprio i due “maschi Alpha” del pallone: il presidente della FIFA Joseph Blatter e il suo delfino, presidente UEFA, Michel Platini. La tensione tra i due è ai massimi storici e l’assegnazione delle due Coppe del mondo ha tanto il sapore di un redde rationem definitivo.

Ora, che l’assegnazione di un evento sportivo di livello globale sia un affare di soldi, potere, favori e bustarelle, non stupisce nessuno. E nemmeno il fatto che le alte stanze del potere calcistico non siano abitate da gigli di campo è una novità. Infatti le prime indagini, durate più di tre anni, non portano sostanzialmente a nulla. «Nel processo di assegnazione dei mondiali a Russia e Qatar c’è stata qualche trasgressione di portata limitata – ammette il presidente della camera arbitrale Hans-Jens Heckert – ma l’integrità del voto di attribuzione non è stata violata nel suo insieme».

Un fiume di incriminazioni

Tutto come al solito, si direbbe. Polemiche destinate a smorzarsi col tempo e poi via con un nuovo giro di giostra. C’è solo un problema: Chuck Blazer, appunto. L’americano oltre ad avere una passione per gli animali da compagnia, colleziona anche pappagalli, pare abbia pure il vizietto di non pagare le tasse. L’FBI ha beccato alcuni suoi conti milionari nei paradisi fiscali e, il nostro, per potersi curare un tumore (che gli sarà fatale nel 2017), ha accettato di diventare un informatore. Sta raccontando tutti i segreti su come viene gestito il calcio mondiale.

Chuck Blazer con uno dei suoi pappagalli

Dalle rivelazioni di Blazer sgorga un fiume di incriminazioni, quasi nessuna confederazione si salva e le ombre si allungano anche sul Mondiale tedesco del 2006. Fra la tarda primavera e l’autunno del 2015, a seguito di indagini, retate dell’FBI e delazioni varie, buona parte del gotha del calcio mondiale viene spodestato. Per quel che concerne la famosa votazione di dodici anni fa, oltre alle mazzette a svariati zeri per ammorbidire questo o quel delegato, viene fuori che Blatter aveva già promesso le coppe ad Inghilterra e Stati Uniti. Soprattutto a questi ultimi, per una questione di diritti televisivi, ma è stato tradito dall’uomo che aspirava a prenderne il posto da lì a breve.

I rapporti fra Qatar e Francia

Le Roi Platini, pochi giorni prima del voto, ha incontrato per una colazione Mohammed Bin Hamman, lobbysta qatariota e presidente della Asian Football Confederation che sta gestendo tutto il giro di influenze che ruota attorno alla candidatura del Qatar. Secondo le rivelazioni di France Football alla colazione sarebbe poi seguita una cena all’Eliseo tra lo stesso Platini, il presidente francese Sarkozy e lo sceicco Tamin bin Hamad al-Thani. Sul tavolo, oltre all’accordo sul Mondiale 2022, l’acquisizione da parte di al-Jazeera dei diritti tv del campionato francese, una flotta di 24 jet Dassault Rafale (valore 7 miliardi di dollari) e lo sbarco della Qatar Sports Investments alla guida del Paris Saint Germain.

Intervistati, in merito a quei giorni, all’interno del documentario Netflix appena uscito, sia Platini che Tamin fanno orecchie da mercante. Lo sceicco nega le accuse perché mai avrebbe messo a rischio il futuro geopolitico del Qatar solo per un Mondiale. Platini rovescia la frittata spiegando di essere stato lui stesso “venduto” da Sarkozy. Bello. Probabilmente un giorno scopriremo che il PSG, gli aerei, i mondiali e tutto il giro di miliardi erano solo per poter regalare un paio di settimane di mare sulle spiagge del golfo Persico a Carla Bruni.

La punta dell’iceberg

Comunque, per non cadere nel classico ritornello del calcio brutto e cattivo, dove i soldi contano più dei valori e via dicendo, giova ricordare come il Mondiale che sta per iniziare sia solo la punta dell’iceberg. O meglio, l’approdo finale di una strategia di soft power che il Qatar ha avviato più di vent’anni fa, nella quale lo sport è una delle principale teste di ponte. Dal 2006 ad oggi l’emirato è diventato sede di tornei di tennis ATP e WTA, di una tappa del motomondiale e della Formula 1, del Qatar Masters di golf e persino della Desert Cup di hockey su ghiaccio. Oltre a mondiali e appuntamenti vari di ciclismo, atletica e ginnastica. Tutto lo sport è paese, quindi.

Bene, adesso ci sono davvero tutti gli ingredienti per gustarsi Qatar 2022. Non c’è polemica o questione sociale che tenga: il Mondiale si fa, punto. D’altronde, se abbiamo giocato Argentina ‘78, qui al confronto siamo all’acqua di rose. Perciò, alle ore 17 di domenica 20 novembre, Qatar ed Ecuador scenderanno finalmente in campo per una delle sfide inaugurali più improbabili di sempre. Tutti pronti, con una consapevolezza: “il calcio è il popolo, il potere è il calcio”. Come scriveva, inarrivabile, Eduardo Galeano.

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