“Essere genitori” è qualcosa di difficile verbalizzazione. È una dimensione talmente complessa e in perenne movimento, che scegliere alcune parole per definirne il senso diventa la richiesta di escluderne altre, che però credo siano altrettanto inerenti ed efficaci. Amore, empatia, fermezza, educazione, dialogo, sicurezza. Nell’infinità di tale scelta, ciascuno comunque sceglierebbe i propri termini.

È difficile come se ci chiedessero di descrivere i nostri genitori, oppure noi stessi in questo delicato ruolo. Difficile come prediligere delle specifiche componenti che contraddistinguono una relazione genitoriale. Difficile come accogliere la costruzione di una sottile trama che ci tiene, in qualche modo, inevitabilmente legati dopo essere diventati genitori. Legati alla nostra, anche nuova, famiglia e contemporaneamente all’immagine che abbiamo di noi stessi.

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La nascita di un figlio comporta generalmente alcuni cambiamenti, sul piano delle attività, delle abitudini e delle responsabilità dei genitori. Le modalità di adattamento a tali cambiamenti sono diverse da persona a persona. Ma, frequentemente, immaginando il futuro, i genitori sono accumunati da un senso di incertezza, che si riflette spesso nella paura.

In questo periodo noi tutti abbiamo potuto sperimentare quanto la paura sia una primitiva, e spesso intensa, emozione, caratterizzata da un modello sistematico di modificazioni fisiche e di precisi modi di comportamento, come la fuga. Un’emozione utile, se di fronte si avverte un pericolo o una minaccia. E per chi va incontro a un cambiamento, come un genitore, la paura può diventare un compagno di viaggio per molto tempo.

La paura che può coinvolgere se stessi, come genitori, nei termini di “sono o potrò essere capace?” e, contemporaneamente, la preoccupazione per il benessere di ciascuno dei membri della famiglia. Winnicott parlava del genitore sufficientemente buono, perché escludeva la possibilità di essere perfetti e di non commettere errori. Esprimeva la volontà del genitore di fare il proprio meglio, leggendo l’eventuale errore come un’esperienza che non è andata nella direzione voluta, che non ha portato ai risultati desiderati, cioè come uno sbaglio commesso piuttosto che come “genitore sbagliato”. Perché imparare a essere dei buoni genitori spesso passa dall’accettazione dell’errore, più che dai successi ottenuti.

Per esempio, quante paure di fronte a un pianto di un bambino? Eppure le ricerche dimostrano che i genitori riescono a distinguere il pianto del loro bimbo già al terzo giorno di vita e che sono capaci di cogliere i diversi tipi di pianto dopo circa dieci giorni. E così la paura si combina con l’ansia. Quella emozione che da un lato richiama quelle energie che servono allo stesso genitore per affrontare i nuovi compiti, ma che, dall’altro, in alcuni casi, può immobilizzare. Così l’essere genitori può diventare un’esperienza di solitudine e di chiusura.

Mi chiedo se a volte proprio il non considerare abbastanza le esigenze dei genitori diventi motivo di frattura di quei legami apparentemente indistruttibili. Mi chiedo quante volte pretendiamo dai neo genitori di ritornare a una apparente normalità dopo pochissimo tempo, senza prendere troppo in considerazione l’individualità di essi e, al tempo stesso, dei bambini. Mi chiedo quanto, ancora oggi, nella definizione di genitori utilizziamo uno sguardo stereotipato. Mi chiedo quanto, ancora oggi, spesso ci interroghiamo sull’essere genitori, dimenticando di chiederci “cosa significa non essere genitore?”.

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