Golden State vince il quarto titolo Nba degli ultimi otto anni superando 4-2 i Boston Celtics nella finale play-off. I Warriors hanno così aggiunto un’altra perla a una dinastia irripetibile, ma non ancora conclusa. Di squadre vincenti nella lega cestistica più famosa del pianeta è ricca la storia. I San Antonio Spurs delle Twin Towers David Robinson e Tim Duncan, i Chicago Bulls di Michael Jordan, i Boston Celtics di Bill Russell o i Los Angeles Lakers di Kareem Abdul Jabbar, solo per citarne alcune. Quello che però è stato fatto da Stephen Curry, il miglior tiratore della storia del basket, e compagni ha caratteristiche e peculiarità uniche.


Il sistema Golden State

Il sistema proposto a Golden State è uno dei progetti sportivi più interessanti degli ultimi decenni a livello di sport di squadra, non solo da un punto di vista tecnico. Nasce a San Francisco, in una delle città al mondo in cui sognare viene naturale, ma costa. Per viverci devi poterti permettere affitti mostruosi o, viceversa, devi accettare di dormire in auto utilizzando al mattino i bagni delle palestre a buon mercato.

Tutto ebbe inizio quando Steve Kerr, esordiente nelle vesti di allenatore, ma già vincitore di cinque anelli da giocatore, nel 2014 prese in mano la guida tecnica della franchigia.
Vi state immaginando un guru? Un santone della pallacanestro con barba sempre in ordine alla Gregg Popovich e modi di fare burberi? Oppure un comandante dai modi militareschi o, infine, uno dallo stile Hollywoodiano e dalle cravatte inguardabili? Niente di tutto questo.
Kerr appare come il classico americano medio, seppur non appesantito dall’assunzione quotidiana di junk food. Fisico normale, volto aquilino, occhio penetrante e nessuna concessione a ostentazioni modaiole a favore di telecamera. Un uomo bianco che potreste incontrare tra i campi dello Iowa, così come in qualche ufficio di Dallas o a domare del bestiame imbizzarrito in qualche rodeo a San Antonio.

Eppure Kerr ha dimostrato di essere speciale. Passo passo, ha rivoluzionato una franchigia dai buoni risultati, ma mai eccellenti. Ha stravolto il gioco del basket in meno di una decade e ha sviluppato uno stile di leadership di cui subiremo il fascino ancora per decenni. Con lui a Golden State si è deciso con assoluta coerenza ogni minimo dettaglio. Dall’acquistare ogni singolo atleta in base a caratteristiche ben precise, fino ad ogni altra scelta strategica.

Sei un ottimo tiratore, ma non passi bene? Non sei da Golden State. Sei un lungo statico che non difende su almeno quattro ruoli? Non sei da Golden State. Il tutto con grande attenzione alle relazioni, al riconoscere lo status di star ai giocatori più rappresentativi, ma responsabilizzandoli ad una disponibilità verso il gruppo impareggiabile.
Il sistema valorizza all’ennesima potenza l’atleta a tal punto che ogni individuo dotato di spiccata intelligenza lo capisce e sacrifica una parte di proprio ego per poter usufruire di quel qualcosa in più fornito dal sistema. Per essere da Golden State serve intelligenza, prima di tutto sportiva.

Steve Kerr al suo nono titolo Nba tra quelli conquistati da giocatore e quelli vinti da allenatore di Golden State

Una rivoluzione nella franchigia, uno sconquasso nel basket

Kerr e gli Warriors vincono subito l’anello nel 2015 aprendo un quadriennio di sfide in finale contro i Cleveland Cavs di LeBron James. Diciamolo: vince LeBron solo nell’anno in cui Stephen Curry ha problemi al ginocchio e lo fa in maniera rocambolesca, ma per il resto a San Francisco arrivano tre anelli uno più bello dell’altro. Nel frattempo, è pure giunto alla corte di Kerr anche Kevin Durant, airone da 2,08 che tira, difende, ma non brilla per gestione del proprio io. Infatti, dura poco nella Baia, all’ombra del Golden Gate Bridge.

Vittorie tante, ma ciò che rende speciali i Warriors è che giocano una pallacanestro mai vista, a detta di molti inimitabile. Eppure, ad ogni latitudine tutti cominciano a copiarne i presupposti. Velocità, intensità, spaziature, fiducia incrollabile verso il tiro, anche da lontano, lontanissimo. Questo in fase offensiva, l’aspetto più famoso del sistema Warriors. È in difesa però che Golden State manifesta l’essenza più profonda e pura del proprio sistema. Cambi repentini, letture, sacrificio collettivo, scelte decise e applicazione costante, anche di Curry, non certo il mastino dell’immaginario collettivo.

Tutto il mondo guarda al range di tiro proprio di Curry, ma ciò che va osservato è il livello di autoconsapevolezza e di fiducia di un gruppo a tratti gestito con una briglia talmente sciolta che qualcuno potrebbe pensare ad un Kerr figlio dei fiori che, lasciato il suo furgone California parcheggiato sulle scogliere di una spiaggia dell’Ovest, di tanto in tanto si reca allo Chase Center per dirigere qualche allenamento.

Gli Warriors non si battono, vanno abbattuti

Siamo alle Finals 2019. Nella serie valida per assegnazione del titolo, Golden State perde per gravi infortuni uno dietro l’altro sia Durant che Klay Thompson, gemello diverso di Curry. Il titolo va a Toronto e per i californiani sembra la fine della dinastia, specie quando Durant se ne va, mai inseritosi nel sistema e Thompson, dopo la riabilitazione del crociato, si rompe il tendine d’achille. Le belle storie, anche le più incredibili, hanno una fine, pensano tutti.



Lo zampino della dirigenza Warriors, gestire le sconfitte

Sulla baia non ci si scoraggia, ci si affida ancora una volta alle idee, non si lesinano gli investimenti e ci si arma di pazienza. Arrivano così due stagioni perdenti che portano Golden State ad essere anche la peggior squadra della Lega in concomitanza con un altro infortunio, quello della stella Stephen Curry. Sarebbe inaccettabile in qualsiasi altro luogo del pianeta un tracollo così repentino e clamoroso, ingiustificabile agli occhi di tutti gli stakeholders, tifosi in primis. Eppure, il sistema va avanti e semina. Kerr non smette mai di ricordarlo.

Questa strategia infatti, consente ai Warriors di acquisire dal Draft alcuni buoni talenti (meccanismo che porta i giovani cestisti ad entrare in Nba favorendo in ordine inverso di classifica le varie franchigie). Tutti funzionali al sistema, tutti pronti a garantire un futuro radioso a loro stessi e alla squadra di appartenenza, ad essere da subito role player indispensabili o merce di scambio per acquisire veterani già pronti ai palcoscenici più importanti.

Il capolavoro 2022

Nell’autunno 2021, alla partenza della stagione Nba, nessuno indica Golden State tra le favorite. Curry ormai trentaquattrenne, Thompson fermo da tre anni e non ancora rientrato, il giovane James Wiseman ai box per problemi al ginocchio. I dubbi sono molti e tante altre sono le franchigie ricche di talento, poste ai vertici dei pronostici.
Eppure, Golden State scende in campo con le sue solite certezze, con il suo solito sistema. Curry gioca da Mvp per qualche mese e poi rientra pure Thompson. Si riuniscono le qualità, i sincronismi e l’intelligenza di un tempo e i Warriors tornano a vincere con decisione.

Ai playoff partono ancora da non favoriti, ma non c’è spazio per nessuno. Troppo forti, troppo coesi, troppo inseriti in un sistema rodato, allo stesso tempo visionario ed efficiente. La chiave di volta? L’inizio dei playoff quando un acciaccato Curry si accomoda in panchina a favore del giovane Jordan Poole, emblema dell’immenso lavoro tecnico dello staff Warriors. Non esistono altre stella Nba che avrebbero accettato di lasciare il palcoscenico al giovincello acerbo, invece Curry, la star suprema, con il suo atteggiamento lancia un segnale a tutto il gruppo. Conta vincere, non importa se i protagonisti ogni sera cambiano. E così è stato.

La foto che più rappresenta il percorso ai playoffs di Golden State – Jordan Poole esce dopo aver degnamente sostituito la star Stephen Curry che entra dopo avergli lasciato il palcoscenico.

Gli uomini al centro, le loro idee e… i soldi

Studieremo a lungo la genesi e le caratteristiche di questa rivoluzione portata dai Warriors nella pallacanestro, ma sin d’ora si può affermare che la ricetta non abbia ingredienti sconosciuti. Uomini eccezionali, idee visionarie, ma declinate con assoluta concretezza, coerenza rispetto al progetto e… tanti soldi. A San Francisco da almeno una decina d’anni si spende in perfetto stile californiano (più di 360 milioni di dollari, tra ingaggi e luxury tax nel solo ultimo anno). Soldi, va detto, investiti molto bene.

Tutto finisce e un giorno terminerà anche l’epopea dei Golden State Warriors. Curry invecchierà, non sarà più la luce e l’essenza del sistema, ma le basi per un rinnovo della dinastia già ci sono. Kerr e i suoi uomini hanno pensato per tempo al futuro, non sarà facile scalzarli dal trono.

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