C’è una storia nascosta e poco conosciuta, come nascosti e poco conosciuti sono i sentieri su cui si è svolta. Come discreti e svelti, sono stati i passi che li hanno percorsi.

Al confine tra le provincie di Treviso e Belluno c’è un territorio montano che conserva memorie preziose di quei passi, di quelle storie e di quelle vite dedicate alla resistenza e alla lotta per la libertà.

Il Pian de le Femene, è un altopiano che si stende tra le Prealpi Venete, tra il monte Cimone, Col de le Zércole e il Monte Frontal.

Ci sono due teorie, forse vere entrambe, sull’origine del nome di questo altipiano.

La prima riguarda le donne dei pastori e malgari, che arrivavano fino a questi luoghi dai villaggi più a valle, per portare cibo e tutto il necessario ai loro uomini che passavano l’intera bella stagione a lavorare in alta montagna.

Lungo il sentiero delle donne della resistenza. Foto di Laura Cappellazzo

La seconda teoria invece, racconta che tra questi sentieri le donne già nell’Ottocento fossero le protagoniste di scambi e commerci di contrabbando. Essendo molto meno “sospettabili” degli uomini erano loro a trasportare merci proibite quali il tabacco, da una regione all’altra del Regno.

Ma il Pian de le Femene, acquista la sua maggior importanza durante la Seconda Guerra Mondiale, quando tra queste montagne si combatterono le battaglie della resistenza tra brigate partigiane, Mazzini e Tollot, e le truppe tedesche e le squadre fasciste.

Si dice che la guerra sia una questione maschile. La verità è che dove ci sono soldati che si combattono c’è sempre un esercito di donne che li sostengono, che li curano, che portano loro cibo, medicinali, armi, munizioni e tutto ciò che può loro servire per sopravvivere e combattere in montagna.

Casera utilizzata dalla brigata Tollot, sulla cima del Col de le Zercole. Foto di Laura Cappellazzo

Ed ecco che tra il ‘44 e il ‘45, questi i sentieri vennero calpestati dalle donne della resistenza: partigiane esse stesse, staffette, o semplici portatrici che rifornivano le brigate del necessario.

Niente di romantico. Niente di poetico. Niente di retorico. Spesso erano le stesse madri dei partigiani, ragazzi adolescenti o giovani appena ventenni, che camminavano fino ai loro bivacchi per portare conforto.

Con la paura di arrivare in cima e trovarli feriti. O non ritrovarli affatto.

Portare”, sembra sia questo il verbo che caratterizza il ruolo delle donne in questi luoghi. Portare merci. Portare cibo. Portare beni di prima necessità.

Portare il dolore.

Il monumento alle donne della resistenza. Foto di L. Cappellazzo

C’è un monumento che le ricorda, proprio all’inizio del Pian de le Femene. É il monumento alle donne della resistenza. Non viene specificato se la donna ritratta sia una combattente, una staffetta o una madre che sorregge il figlio.

Ma quello che si respira è il dolore di una donna che porta un giovane morto. Al di là della retorica, al di là delle motivazioni, al di là della politica, la guerra è questo: giovani che muoiono e donne che portano il dolore.

“Non appena racconto ricomincio a soffrire di nuovo. Rivedo tutto: come giacevano i cadaveri, con le bocche spalancate come se stessero gridando qualcosa e non avessero il tempo di finire… Come si può raccontare? Con quale faccia? Alcuni ci riescono… Eppure bisogna serbare la memoria di quanto è accaduto. Bisogna che tutti sappiano. Da qualche parte nel mondo deve conservarsi il nostro grido. il nostro lamento…” (tratto dal libro La guerra non ha un volto di donna, di Svetlana Aleksievic).

Si ringrazia Naturalmente Guide, per l’escursione e le spiegazioni storiche.

© RIPRODUZIONE RISERVATA