Dare un nome alle pietre di Marte stando comodi al proprio pc? Ecco di cosa (anche) si occupa Erica Luzzi, la geologa planetaria ospite di questa storia.

Una professione tutta da esplorare.

Ascolta l’episodio podcast di “STEM BY ME” .

Dottoressa Luzzi, prima di tutto devo chiederle in cosa consiste il suo lavoro. Che cosa differenzia una geologa planetaria da una classica?

«A differenza di una geologa “di terra”, che può andare sul campo con martello e bussola per fare le ispezioni, noi analizziamo delle immagini della superficie di Marte che vengono catturate da satelliti che orbitano intorno al Pianeta, combinati ai dati spettrali, che riguardano le rocce presenti.»

E quindi è un lavoro prettamente sedentario e virtuale?

«No, la realtà è che ogni tanto, diciamo 2/3 volte all’anno, facciamo delle esplorazioni in luoghi remoti, deserti e “vergini”, dalle caratteristiche simili a quelle del pianeta in questione. Sono gli “analoghi terrestri” – zone che presentano caratteristiche simili, sulla Terra, dove possiamo effettivamente condurre le nostre esplorazioni e misurazioni.»

Può farmi qualche esempio?

«Si passa dall’Antartide ai deserti del Sudamerica come l’Atacama, dalla tundra della Russia sconfinata alle distese africane reduci di processi di inaridimento, come il Kalahari Salt Pan del Botswana, dove sono stata di recente. Le condizioni estreme di questi luoghi rendono ogni spedizione una vera avventura… anche per la sopravvivenza.»

E come ha realizzato di avere questa passione così particolare?

«Sono sempre stata un’amante della natura, una “elfo-ranger”, e per me il contatto con essa è fondamentale. In particolare mi affascinano le rocce, ho preferito studiare geologia ai percorsi umanistici, convinta che la loro formazione ed evoluzione mi avrebbe fatto scoprire storie incredibili anche sulla nostra esistenza sulla Terra. A una lezione, poi, uno dei professori che più hanno ispirato la mia carriera e crescita, ci ha mostrato la foto di un tipo di struttura geologica in “versione marziana”: in quell’esatto momento ho capito che volevo studiare e approfondire questo nella vita.»

Quindi mi conferma che non è una “passione di famiglia” benché così rara e particolare?

«No, al contrario. Io sono una cosiddetta “first generation”, ovvero la prima che si laurea in famiglia. I miei genitori fanno lavori diversi e non hanno un percorso di studi accademici. Se combiniamo questo con la specialità della materia, si può ben capire che io non abbia avuto la strada in discesa… ma con tanta determinazione e qualche trasloco per seguire questa passione, sono riuscita a fare il lavoro dei miei sogni.»

E quali competenze crede siano necessarie per affrontare questo percorso?

«Ne citerei tre. In primis, la capacità di andare oltre i problemi e le difficoltà. Il metodo scientifico insegna che è sbagliando che si impara, e questo lo dobbiamo applicare nella vita di tutti i giorni. Poi la flessibilità e l’apertura mentale per uscire dalla propria zona di comfort. So che può sembrare banale, ma è solo apprendendo nuove skill che possiamo adattarci ai problemi nuovi che sicuramente incontreremo. E infine la conoscenza dell’inglese. Non mi stancherò mai di ripetere quanto è importante sia per cultura personale, ma anche perché è la lingua comune nel mondo scientifico ed è necessaria per confrontarsi con i colleghi da altre parti del mondo, per partecipare alle conferenze, rimanere informati sulle scoperte intorno a noi.»

Vuole regalarci un mantra come sassolino porta-fortuna?

“Let me never fall into the vulgar mistake of dreaming that I am persecuted, whenever I am contradicted”

Ralph Waldo Emerson

«Ovvero “che io non creda mai di essere perseguitato ogni volta che vengo (semplicemente) contraddetto”. Nel mondo scientifico come nella vita, accettiamo i consigli, le revisioni, le opinioni altrui. Solo così possiamo crescere, essendo più flessibili e pronti ad accogliere le diversità.»

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