Mercoledì sera, in Champions League, Roman Yaremchuck segna e mostra una maglietta col tridente, simbolo dell’Ucraina. All’alba, l’attacco russo. C’è qualcosa di tragico e, al tempo stesso, profetico nell’immagine che televisioni e social hanno rilanciato un po’ in tutta Europa. Siamo tornati ai tempi delle magliette.

La maggior parte di noi ha visto foto e filmati del match il mattino dopo, quando l’invasione era già in atto, accentuando l’impatto emotivo. C’è da soffermarsi su quell’immagine. I piani di lettura si sovrappongono, soprattutto per chi si ricorda bene la primavera del 1999.

Torno indietro con gli anni, quando i protagonisti della nostra Serie A mostravano anche loro delle t-shirt sotto le divise ufficiali. Anche lì, uno scatto rimasto nella storia e nella memoria del nostro calcio. Siniša Mihajlović e un giovane Dejan Stanković sul prato dell’Olimpico con “Peace not War” e “NATO stop bombing” a caratteri cubitali sul petto. Frasi che per qualche settimana sono rimbalzate un po’ ovunque nel globo: Djordjevic sul parquet di Barcellona, Stojković in Giappone e perfino Romario, sotto i riflettori del Maracanà.

Erano i mesi del Kosovo, degli aerei diretti verso Belgrado in partenza dalle basi italiane. Erano giorni di bombe che cadono dall’alto. “Non esistono bombardamenti chirurgici, che non producono danni collaterali” ripetono ancora oggi gli opinionisti tv. Il mondo era diverso, la situazione geopolitica e il contesto erano diversi. Chi associa oggi con ieri in un forzato desiderio di giustificazionismo storico, dovrebbe quantomeno ampliare il ragionamento. Ricordare a cosa portano certi parallelismi di facciata. Ad esempio a sei mesi dopo, quando sugli stessi spalti apparivano infami striscioni in memoria di Arkan. Solo la stretta allo stomaco rimane la stessa. Oggi come allora.

Nella primavera del 1999 Britney Spears con Baby One More Time diventava un fenomeno globale e con un lettore CD portatile, di quelli che saltavano a ogni buca, sembrava di avere il futuro in mano. Il digitale non permeava ancora ogni aspetto delle nostre vite e, senza social, pure uno sportivo professionista aveva meno possibilità di far conoscere le proprie opinioni.

Per questo continuo a fissare Miranchuk con il tridente bianco che svetta sulla maglietta nera. In giorni di collegamenti tv, tweet convulsi e osservazioni sparse un po’ ovunque nel web, racchiude in un’immagine molto di quello che l’Europa è, e di ciò che pensava di essere. In un guscio di noce, come direbbero gli americani.

C’è la Champions League che, oltre ad essere l’appuntamento calcistico di club più importante del globo, è forse l’unico palcoscenico in cui l’Europa è riuscita a concretizzare quegli ideali di fratellanza, condivisione e progresso che ne dovrebbero costituire la base. Certo, ci sono voluti i miliardi di un business globale e le mille contraddizioni di questo sport, ma tant’è. Un teatro dove il piccolo club della Bessarabia può sfidare le luci dorate di Madrid, e magari vincere. La Champions è democrazia, globalizzazione felice, lo specchio in cui ci vediamo primi al mondo. Ma è anche uno Shakhtar Donetsk esiliato a Kiev per partecipare alla distribuzione degli utili. È il riflesso dell’Europa.

Lo è anche nelle azioni, spesso, di facciata. Sanzioni minacciate da settimane e, al momento del dunque, scoprirci ognuno intento a difendere il proprio orticello per subire meno ripercussioni possibili. Come la scelta di togliere la finale a San Pietroburgo e spostarla a Parigi. Sacrosanto, ma anche la mossa giusta per non farci ricordare che Gazprom è da anni main sponsor di tutti i grandi appuntamenti firmati UEFA.

Torniamo allo scatto. Allargando il campo visivo, ci sarebbe pure quell’altra scritta. Respect. Slogan perfetto per gli spot pre-partita del XXI secolo, ma che cede inevitabilmente il passo quando quando l’artiglieria spara. D’altronde è proprio così che abbiamo pensato di rispondere alle problematiche sociali, alle pagine di storia rimaste incomplete e con le quali fatichiamo a fare i conti. Una frase ad effetto, stampata in serie sulle pettorine dei panchinari. A favor di telecamera. Se queste sono le nostre armi, c’è solo da sperare che non abbia ragione Kapuściński quando, riprendendo un detto russo, racconta che “le uniche frontiere sicure della Russia sono quelle dove, da entrambe le parti, stazionano soldati russi”.

Alla fine di ogni riflessione, però, la realtà esige il suo tributo. Ricordandoci che si tratta soltanto di una foto. Superata da mille altre che ci hanno raggiunto in questi giorni, molto più potenti di Yaremchuck. Il fumo delle bombe che sale dai palazzi di Kiev, i fiumi di auto in fuga dalle città, la donna col volto insanguinato con la quale molti giornali hanno aperto le loro edizioni.

Sono solo foto, certo, ma anche in fasi storiche in cui si è sopraffatti dal diluvio di filmati e immagini che ci raggiungono istante dopo istante direttamente sui nostri cellulari, forse è proprio quella l’unica speranza. Che ci sia sempre uno scatto così, come quello che mostra la gente nascosta nella metro di Kharkiv, alle porte dell’Europa. Immagini in grado, se non proprio di farci cambiare opinione, almeno di turbarci il sonno.