Ieri, lunedì 24 gennaio a Montecitorio, sede della Camera dei Deputati, è iniziato il rito civile-religioso dell’elezione del Presidente della Repubblica. I 1009 grandi elettori (senatori, senatori a vita, deputati, delegati regionali) si sono riuniti per la prima votazione che però non ha portato a nessun esito concreto: vincono le schede bianche, oggi si ricomincerà da capo.            
             
Il numero magico, almeno fino al 26 gennaio, è di 672 voti, pari ai due terzi del numero complessivo dei grandi elettori. Tanti sono infatti le preferenze che serviranno a decretare il nome del prossimo (o prossima) inquilino/a del Quirinale. A partire da giovedì 27 gennaio, invece, basteranno appena 505 voti: dalla quarta elezione, infatti, si passa alla maggioranza semplice.

La prima giornata, anche se non ha dato un nome, ha dato però moltissimi spunti di riflessione.   

Nei giorni scorsi, il centro-destra aveva preannunciato – in maniera piuttosto timida e remissiva in realtà – la candidatura di Silvio Berlusconi, supportata dalla così detta “Operazione Scoiattolo”, che vedeva il fondatore di Forza Italia impegnato giorno e notte a contattare telefonicamente i grandi elettori indecisi e spingerli a votare per lui. Operazione che però è finita ancor prima di iniziare: domenica 23 gennaio Berlusconi ha di fatto ritirato la sua candidatura lasciando al duo Salvini (Lega) – Meloni (Fratelli d’Italia) le trattative politiche con le controparti, nello specifico Enrico Letta (Partito Democratico) e Giuseppe Conte, sul quale però incombe l’ombra pesantissima di Di Maio, del Movimento 5 stelle.             

Tra domenica 23 e lunedì 24 hanno iniziato a circolare i primi nomi di possibili candidati, schermaglie tattiche in vista dell’apertura delle danze. Sia il centrosinistra (con l’ex ministro Ricciardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio) sia il centrodestra (con l’ex magistrato Nordio) hanno provato a presentare due candidati di facciata: entrambi gli schieramenti sapevano perfettamente che non avrebbero avuto la minima possibilità, ma, nel sottile gioco delle parti, servivano due nomi da diversivo per tenere nascoste le reciproche intenzioni e possibilmente verificare la fedeltà nel segreto delle urne dei propri sostenitori.   

Anche questa mossa è stata scavalcata dagli eventi. Alle 21:40 di ieri il Presidente della Camera, Roberto Fico, sancisce che di fatto la stragrande maggioranza delle schede (672) sono bianche, primo degli eletti risulta Paolo Maddalena con 36 voti e a seguire con 16 voti il Presidente uscente Mattarella che ha già fatto sapere in maniera piuttosto inequivocabile che lui al Quirinale non vuole ritornare salvo cataclismi.     

Il voto a Maddalena non è casuale: la minoranza del Movimento 5 Stelle, una quarantina tra deputati e senatori, già una settimana fa aveva indicato in Maddalena il proprio candidato. Rivederlo a 36 voti vuol dire probabilmente che il Movimento ha una sua spaccatura interna e che potenzialmente potrebbe essere una scheggia impazzita nel corso dei giorni successivi.    

Cosa accadrà quindi da qui in avanti?    

Difficile dirlo: già da ieri, ad urne ancora aperte, si rincorrevano voci di corridoio che volevano i vari leader impegnati in incontri più o meno informali che hanno un unico protagonista: Mario Draghi. L’attuale Presidente del Consiglio è il convitato di pietra alla giostra del Quirinale: tutti lo citano, tutti lo lodano, tutti lo apprezzano ma di fatto, ad ora nessuno ha detto esplicitamente che lo voterà.              
Una scelta particolare ma che potrebbe avere una spiegazione molto pragmatica.      
Appare molto probabile che Draghi salirà al Colle giovedì 26, con il primo turno di votazione a maggioranza semplice, e che a ora i partiti si stiano interrogando su come formare un nuovo governo non appena l’attuale Premier avrà traslocato al Quirinale. Due le opzioni sul tavolo: governo dei leader (come voluto da Salvini e appoggiato dal leader di Italia Viva, Renzi) oppure si continua con un altro governo tecnico (con i vari Franco, oggi Ministro dell’Economia o Belloni, attuale direttrice dei Servizi Segreti italiani, in pole position alla successione). Forse, in attesa di trovare la soluzione al rebus di Palazzo Chigi i partiti preferiscono “proteggere” il nome di Draghi e non bruciarlo subito nelle prime votazioni.            

Questa la visione ottimistica. La visione meno ottimistica dice che i partiti non siano proprio entusiasti di avere Draghi al Quirinale. Un inquilino così forte – apprezzato e lodato in tutta la parte occidentale del pianeta – potrebbe significare che i prossimi sette anni di vita politica nazionale saranno di fatto governati dal Colle, portando il Paese nel presidenzialismo e nella terza Repubblica, con tutte le incognite del caso per il sistema partitico italiano da qui fino al 2029.

Decisive le giornate di oggi e domani: Salvini, Conte e Letta (le tre forze che di fatto reggono il governo) dovranno guardarsi negli occhi e capire se puntare definitivamente su Draghi e blindare il suo nome per eleggerlo al quarto scrutinio. Viceversa, l’altra opzione è una crisi al buio, con la mancata elezione di Draghi e di conseguenza le probabilissime dimissioni di quest’ultimo da Presidente del Consiglio, si aprirebbero scenari ad oggi impronosticabili.

Certo è che ci sarà ancora da divertirsi.

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