Quasi mai quello che è urgente è importante. Eppure confondiamo spesso le due cose lasciando il passo alla difficoltà di prendere decisioni in ordine di priorità, alla deconcentrazione e all’illusione di essere ovunque, connessi con tutto e tutti e l’inquieta, tormentata certezza di non essere mai in relazione profonda con niente e nessuno, nemmeno con se stessi.

Residua poi, la sensazione di non avere mai abbastanza tempo per risolvere tutto quello che siamo chiamati a fare. Dal lavoro alla vita privata.

Tutto questo fugge e lascia poco; per colmare il vuoto che emerge, qualsiasi cosa vale; si perdono di vista le priorità, le cose importanti; tutto, appunto, diventa urgente. E così corriamo veloci. Con la sensazione di venire divorati dal tempo, allontanandoci da noi stessi, dal nostro mondo.

Diventa un circolo vizioso in cui il non avere tante cose da fare, tantissime telefonate da sbrigare o numerosi messaggi a cui rispondere, connota un non essere al passo fino a un “fuori moda” con conseguenze sulla salute psichica e fisica non indifferenti, fino ad arrivare, in casi estremi ma non così rari, al suicidio.

È il caso di quello che viene chiamato superlavoro o Karoshi, termine giapponese adottato in medicina a livello internazionale negli anni ‘90 che indica la morte improvvisa (per es., da ictus cerebrale) insorta, con verosimile nesso di causalità, dopo un prolungato sovraccarico lavorativo (fino a 90 ore settimanali di straordinari), associato a frequente o subcontinuo coinvolgimento emotivo.

Questo tempo urgente divora il nostro tempo, quello che gratifica davvero e che crea ulteriore spazio e tempo dentro di noi, senza la necessità di essere ulteriormente riempito se non dalla medesima sostanza di ciò che lo ha generato: la nostra natura più profonda, la nostra interiorità, il nostro Sé. In un circolo questa volta virtuoso.

Ma stare nel vuoto, stare dentro di noi, nel vuoto ricco delle proprie risorse interne, quelle che ci sono e non quelle che si vorrebbero o che si dovrebbero avere secondo i dettami esterni a noi, è sicuramente difficile. Significa essere concreti e avere coraggio di mettersi in dialogo con se stessi, con quello che si ha e soprattutto con quello che si è dentro, nel bene e nel male.

Innanzitutto è necessario mettersi in viaggio alla ricerca di tutto questo vuoto interno e creativo. Un viaggio particolare che ha i connotati della verticalità. È un viaggio in discesa, all’interno di noi che richiede tempo e spazi vuoti per accogliere quello che c’è, senza giudizio.

La tecnologia ci aveva promesso tempo, creando contenitori e mezzi in grado di sorreggere una quantità di dati e parole da trasmettere in tempo reale, tagliando l’attesa. Ma in quello spazio senza attesa, sono apparsi nuovi contenitori da riempire. Di informazioni, messaggi, nuovi dati, immagini e parole.

E così via fino a far sembrare tutto questo contenuto utile e possibile, tutto importante. E così via fino a rendersi conto che il tempo non basta. Non basta mai.

Sembra che questo spazio, continuamente pieno e paradossalmente continuamente da riempire,  abbia eletto Kronos come unica possibilità di vivere il tempo. Con l’unica conseguenza di essere vissuti dal tempo.

Ma così la promessa della tecnologia è venuta meno, divorando anche la possibilità di vivere le altre due dimensioni del tempo che gli antichi greci chiamavano – e chiamano: la cultura classica è tutt’altro che morta e obsoleta – Kairòs e Aion.

Saturno che divora i suoi figli nel dipinto di Francisco Goya

Kronos (χρόνος) è tempo cronologico e sequenziale, appartiene ad una dimensione quantitativa. È il più giovane dei Titani, mutila il padre, dopo che questi, temendo di perdere il controllo del mondo, imprigiona i figli. Tuttavia, lo stesso Kronos, sposandosi con Rea, avendo paura che i figli gli tolgano il potere, li divorava appena nati. L’immagine è quella di un Dio potente e distruttore.

Armonia, destino e civiltà sembrano quindi in grado di andare oltre a una dimensione singola di tempo. Infatti se Kronos, il tempo cronologico, diviene l’unico sovrano, chiede in continuazione ma non dona, non offre nulla di sé, è un predatore in ricerca perenne. È abituato ad essere servito, non a servire.

Un’altra immagine del tempo è Kairos (Kαιρός), che significa “tempo nel mezzo”, cioè un momento in un periodo di tempo indeterminato nel quale qualcosa accade. Se Kronos ha una dimensione quantitativa, Kairos ha una natura qualitativa. Come divinità, viene rappresentato come un giovane con ali ai piedi, un lungo ciuffo di capelli sulla fronte e calvo sulla nuca. Rimanda alle azioni che vanno colte tempestivamente, senza ritardi o esitazioni, come per afferrare il dio per il suo ciuffo, prima che l’occasione passi e che il dio ci sfugga definitivamente. Nella mitologia greca e come spesso possiamo ben constatare nel nostro quotidiano, Kairos è perdente perché l’uomo ha sempre più seguito la “logica del tempo Kronos”; ma Kairos non perderà nel momento in cui avrà spazio, gli daremo spazio, per “fermare il tempo”, sua propria qualità, ed espanderà il momento giusto e opportuno.

Infine Aion (Aἰών) si riferisce al tempo eterno, “tempo trascendente e assoluto”, eternità immobile e una. Indica la sede della vita e forza vitale, legato alla durata della vita umana, come tempo non limitato, che scorre incessante, senza inizio, metà e fine. È un tempo circolare. Contrapposto a Kronos, principio del movimento e della mutazione, è il tempo che a sé unisce ogni momento. È  il tempo non tempo. Iconograficamente lo troviamo raffigurato con la testa leonina e avvolto da un serpente che intorno al suo corpo compie sette giri e mezzo. Per la psicologia del profondo è il tempo del Sé, della totalità psichica, unione degli opposti.

Armonia, destino e civiltà hanno bisogno delle tre dimensioni del tempo in equilibrio tra loro. 

Certo, è più facile a dirsi che a farsi perché il primo passo parte proprio da quello che ognuno di noi ha dentro di sé e per accedervi abbiamo bisogno di tempo che dischiuda verso il nostro mondo interno: il tempo delle nostre fragilità, di quei piccoli punti di rottura, di quelle ferite e quindi aperture che ci permettono nel momento giusto e opportuno, di discendere verso il tempo dell’interiorità, la nostra dotazione più preziosa; perché  ha a che fare con quella parte di noi che ci fa provare le emozioni, l’anima, a cui i Greci davano lo stesso nome della farfalla, psychè. Entrambe hanno bisogno di tempo, in tutte le sue dimensioni, per trasformarsi continuamente e spiccare il volo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA