Ci eravamo quasi dimenticati dell’Arsenale, quando l’esclusione dai fondi del PNRR ce l’ha fatto tornare in mente.

Si fa per scherzare, naturalmente: scordarsi dell’Arsenale e dell’immenso spreco – di spazio, di opportunità, di valore storico – che rappresenta è impossibile, e non solo per chi è costretto quotidianamente a imbattersi nello scempio di un gioiello architettonico, con annesso polmone verde, abbandonato a un cantiere senza fine.

Il fatto è, semmai, che la vicenda dell’Arsenale è un’ottima epitome di un tema più ampio che percorre la vita veronese da almeno vent’anni (a essere generosi), e periodicamente riemerge nel dibattito pubblico per poi tornare a inabissarsi: il problema dei contenitori culturali.

Così sfacciatamente prosaica eppure dotata di un che di ineffabile, è la stessa definizione di contenitore a lasciare disorientati. Stiamo parlando di spazi fisici o “intellettuali”? Di semplici “scatole” – contenitori, appunto – da riempire o di luoghi dotati di una propria identità che prescinde dalla funzione cui sono destinati? E quale è, può o deve essere – domanda delle domande! – il rapporto fra contenitori e contenuti?

Domande cui, anche per l’assenza di un dibattito franco e aperto sull’argomento, risulta difficile dare risposta, così come non sembra affatto semplice stilare un elenco, anche sommario, dei contenitori, complice il fatto che non tutti sembrano versare nelle medesime condizioni. Ci sono infatti contenitori già dotati di precise funzioni – come quelli museali, da Castelvecchio a Palazzo Pompei con il Museo di Storia Naturale – che per alcuni andrebbero però ripensati, ristrutturati o ampliati (come nel progetto del Grande Castelvecchio), altri che ne avevano fino a tempi recenti – come Palazzo Forti – ma ora attendono un nuovo destino, altri ancora in perenne attesa di essere recuperati, come l’Arsenale, Palazzo Bocca Trezza o Castel San Pietro, per i quali il destino – per quanto vago – sembrerebbe essere scritto. Ma la lista non si esaurisce certo qui, e fra occasioni mancate e progetti contestati, si allunga fino a comprendere l’ex Fabbrica del Ghiaccio – ora, pare, in dirittura d’arrivo con l’apertura di Eataly, i Magazzini della Cultura al Pestrino, le antiche porte cittadine, i forti austriaci, e molti altri siti ancora.

Con un elenco tanto lungo, e ancora incompleto, le opportunità per la cultura – intesa nel senso più largo possibile – a Verona sembrerebbero infinite. Eppure, sembra che una tale sovrabbondanza finisca più spesso con l’annichilire le idee, anziché stimolarne di nuove. Un po’ come quando, di fronte a un menu troppo ricco, si finisce per ordinare sempre lo stesso piatto. La storia degli ultimi anni lo conferma: con l’esclusione dell’auditorium, tanto indispensabile alla città quanto rapidamente archiviato, le sole proposte che sembra saper partorire la città nei suoi diversi ambienti sono legate a musei e spazi espositivi.

Che si tratti di spostare musei esistenti – come quello di Storia Naturale – di dedicarne di nuovi al vino, agli Scaligeri, alla lirica o alle opere dei depositi, o ancora di realizzarne uno a lungo atteso come il Museo della Città, in una o più sedi, gli spazi espositivi sembrano essere il solo destino possibile per i nostri “contenitori”, con poche, rare eccezioni, come nel caso dell’Arsenale, dove l’ipotesi sfumata di una sede museale è stata sostituita con quella dello spostamento dell’Accademia di Belle Arti nell’ambito di una partita immobiliare piuttosto discutibile e opaca in cui il Comune cerca di fare cassa.

Il proliferare di progetti museali di per sé non dovrebbe costituire un problema. Al contrario, per una città a forte vocazione turistica, e con una consolidata offerta culturale per cittadini e visitatori, poter disporre di un numero maggiore di attrattive dovrebbe costituire un vantaggio. Tuttavia, a guardare più da vicino la questione ci si può rendere conto come quella dei musei rischi di diventare una facile via di fuga per una città sempre più in difficoltà quando si tratta di pianificare, e ormai appiattita su una progettazione che guarda soltanto all’ambito commerciale e a quello dell’ospitalità.

Il perché quello museale costituisca un espediente per confezionare facili proposte politiche o dare risposte immediate a problemi di ordine urbanistico che richiederebbero, altrimenti, l’apertura di un confronto pubblico aperto e partecipato, è presto detto: il museo è, al tempo stesso, un “oggetto” noto e ignoto per l’opinione pubblica. Noto perché, almeno a livello superficiale, tutti sanno cos’è un museo, e in linea generale – dal punto di vista delle politiche pubbliche, più che da quello dell’esperienza personale – viene associato a valori positivi, utilissimi tanto a giustificarne la realizzazione senza porre tante questioni, quando soprattutto nei casi in cui si renda necessaria una “compensazione” per qualche concessione straordinaria o esternalità negativa. Per andare sul concreto, il museo sembra sempre essere una buona idea, perché da un lato nessuno – o quasi – si metterà di traverso, e dall’altro la realizzazione di un nuovo spazio positivo potrà bilanciare, a uno sguardo superficiale, un progetto urbanistico molto impattante o una speculazione edile altrimenti indigeribile per l’opinione pubblica.

Il problema sorge quando si decide di andare al di là di questa lettura superficiale, ed è lì che emerge il volto ignoto dei musei. I quali, lungi dall’essere semplici “scatole” dove esporre questo o quell’oggetto corredato, in ossequio allo spirito dei tempi, da un brillante storytelling, sono in realtà organismi vivi, per la cui sopravvivenza disporre di una sede e di una collezione è sì condizione necessaria, ma non sufficiente. E la stessa città di Verona ne è un esempio, se pensiamo a quanto siano in affanno alcuni dei siti museali storici, che pur trovandosi in una delle città d’arte più visitate del Paese fanno fatica a farsi conoscere e ad attrarre nuovi visitatori tanto fra la popolazione residente quanto fra i turisti.

Se i musei, per loro natura, hanno dunque bisogno di una programmazione dinamica (non solo mostre, ma anche attività didattiche, laboratori, momenti di incontro rivolti alle diverse fasce di pubblico, ecc.), di risorse e di spazi adeguati per poter espletare la propria funzione e rappresentare un elemento realmente vivo nel panorama dell’offerta cittadina, questa ossessione per la destinazione museale dei “contenitori” culturali risulta davvero inspiegabile. Tanto più se si pensa che laddove le istituzioni museali esistenti avrebbero bisogno di espandersi per assolvere al meglio alla propria funzione, divenendo davvero dei luoghi attrattivi e pulsanti, come nel caso di Castelvecchio, questa possibilità viene sistematicamente negata da meschini calcoli politici.

È questa diffusa misinterpretazione di funzione e funzionamento dei musei, utilizzati strumentalmente come panacea di ogni male pianificatorio, a costituire un grande vulnus nel nostro asfittico dibattito sui contenitori culturali, che d’altro canto paga, oltre allo scarso coraggio degli amministratori nell’interrogarsi sui reali bisogni di un sistema culturale integrato (e a Verona gli spunti non mancano, a partire dalla scarsità di spazi e occasioni per le arti performative), la diffusa propensione a far prevalere, nella scala delle priorità, il recupero degli edifici su qualsivoglia approfondita sulle funzioni, donde la falsa convinzione, sfociata in mostruosità come il trasferimento della Galleria d’Arte Moderna al Palazzo della Ragione, che un “contenitore culturale” possa assolvere a più o meno qualsiasi compito, una volta rimesso a nuovo. Del resto, basta una rapida occhiata ai progetti relativi all’Arsenale per rendersi conto che, in assenza di un bando di concorso e di una reale attività di ascolto dei bisogni del territorio (anche al di là dei confini del quartiere), l’approccio utilizzato nel distribuire le funzioni è tristemente in linea con questa tendenza.

Che fare, dunque, dei contenitori? Forse, iniziare a ribaltare la prospettiva ragionando, innanzitutto, sui contenuti. Su quelli di cui già disponiamo, e che hanno bisogno di spazi adeguati, e su quelli che ancora mancano ma servirebbero. Un intenso lavoro di pensiero laterale, che ci consenta di sfuggire dalla trappola dei contenitori portandoci a placare la nostra sete di recupero – anche alla luce del fatto che, senza idee forti, i tempi si rivelano ugualmente biblici, come purtroppo dimostrano innumerevoli esempi – per far prevalere un franco dibattito su ciò di cui Verona ha bisogno per nutrire la propria fame di cultura e di vitalità. Gli spunti non mancano, come pure un ricco tessuto sociale da interpellare e coinvolgere. Chissà che non sia davvero questa la sfida della Verona di domani.

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