Lo sport in Italia è una grande impresa dai mille volti, ma con un denominatore comune: non produce utili, se non in casi del tutto eccezionali. È in costante perdita, eppure viene promosso sui mass media, che ne esaltano il volto vincente.

Grandi e piccoli, nessuno crea valore


Non creano valore le società sportive di vertice che, in aggiunta, operano con livelli di indebitamento cronico ben oltre il limite di guardia. Non solo quelle che si pongono l’obiettivo di vincere, ma anche quelle che cercano di sopravvivere nella propria categoria di appartenenza. Un dato su tutti macroscopico è la PFN (Posizione Finanziaria Netta) di cinque delle principali società di calcio di serie A in cui la Lazio risulta la più virtuosa con un per niente invidiabile saldo negativo di 54 milioni di euro e la Juventus che registra il dato peggiore a -463 milioni (dati al 30/06/2019, fonte www.calcioefinanza.it). In generale, sono casi più che isolati quelli di aziende del calcio che operano con un livello di indebitamento inferiore alla loro patrimonializzazione – peraltro non sempre superiore allo zero – segno tangibile di un rischio insolvenza molto marcato.

Non creano valore nemmeno le società sportive che si occupano di sport di base, che fanno attività giovanile o non agonistica e agonistica di medio-basso livello. Queste, per lo più strutturate in forma di associazione sportiva dilettantistica, devono autofinanziarsi attraverso le quote sociali o finanziarsi per sopravvivere. Con contributi statali o di enti locali in primis, ma anche per buona parte grazie a sponsorizzazioni di privati. Il meccanismo alimenta un effetto distorsivo e sovente illegale se guardiamo, ad esempio, alla fatturazione gonfiata che produce questioni rilevanti anche in sede penale.

Salgono i ricavi, aumentano le perdite

Il calcio è l’emblema di questa atavica incapacità di creare valore abbinata a una propensione altrettanto consolidata di spendere ben al di là di quanto il proprio budget suggerirebbe. Sarebbe, però, ingeneroso parlare solo di calcio. Il sistema sport nel suo complesso è incapace di generare valore, nonostante la percezione dell’appassionato tifoso risulti contrapposta.
I bilanci di società quotate, così come quelli di imprese profit e no profit che operano direttamente nel settore, sono del tutto negativi, salvo qualche eccezione.

La qual cosa per certi versi stupisce perché, almeno al vertice, l’incredibile aumento in questi anni del fatturato relativo ai diritti televisivi avrebbe dovuto permettere al sistema di svilupparsi e mettere radici solide. Così come l’aumento della visibilità commerciale del sistema sport nel suo complesso, certificato dall’entrata di brand dalle ingenti capacità di investimento in molti degli sport più praticati. Si pensi al caso Red Bull. Viceversa, parallelamente all’aumento dei ricavi, i costi di gestione sono aumentati in misura più che proporzionale vanificando l’effetto benefico del maggior fatturato.

Altri benefici oltre agli utili di bilancio

Silvio Berlusconi

C’è da chiedersi, a questo punto come lo sport riesca ancora a stare in piedi.
A questa domanda non è facile fornire una risposta assoluta e netta. In modo provocatorio e superficiale, si può dire che una buona fetta dello sport sia in fallimento o in grave crisi, ma che non si possa farlo fallire per l’indotto che crea e per le conseguenze a cascata che il crack comporterebbe, per lo più sociali. Il tempo ci dirà quanto questa affermazione sia solo una provocazione o sia veritiera.

Ampliando il ragionamento però, si può affermare che gli utili di bilancio non siano l’unico risultato a cui gli imprenditori dello sport ambiscono. Di certo non l’unico parametro per valutare la bontà di un investimento nello sport. L’imprenditoria che si affaccia a questo settore è più spesso interessata ad abbinare la propria immagine personale a caratteristiche di freschezza, gioventù, brillantezza, modernità, successo. Sono tutti aspetti che lo sport è in grado di ben valorizzare e che diventano un tornaconto rilevante per gli investitori, pur non trovando una sua rappresentazione numerica nei bilanci.

In Italia abbiamo avuto l’esempio clamoroso per innovazione e vigore di Silvio Berlusconi patron del A.C.Milan, società usata tra fine anni Ottanta e gli anni Novanta come veicolo di lancio e successiva promozione del progetto politico Forza Italia. Gli esempi successivi, non così eclatanti, si sprecherebbero. Tra questi anche alcuni fallimentari quale, ultimo nel tempo, quello di Massimo Ferrero, presidente dell’U.C. Sampdoria. Il “viperetta” dallo sport, in ogni caso, ha ricevuto un temporaneo salvacondotto, oltre che, come si sta accertando, una ingente cassa da cui attingere fondi a proprio piacimento.  

Non solo, lo sport nella comunità è in molti casi un centro di potere, uno strumento in mano agli imprenditori per creare e tessere relazioni utili anche in altri ambiti, magari a beneficio di altre imprese collegate o in partnership. Insomma, i risultati economici di bilancio non sono il vero metro di valutazione delle performance aziendali per chi opera nel settore.

La domanda iniziale del come si possa sopravvivere senza utili rimane ancora aperta, visto che a livello civilistico le perdite hanno degli effetti in termini di erosione del patrimonio e sulla continuità aziendale, a prescindere da altri tornaconti che non rientrano nella contabilità d’impresa.

Più indebitamento, più finanza, più tempo

Il sistema che le imprese di vertice del mondo dello sport hanno adottato per sopravvivere è, bene o male, un canovaccio comune a quasi tutte, pur con le diverse specificità. Drogare l’azienda di liquidità, valorizzare il più possibile le componenti immateriali (marchi, ad esempio, vedasi Inter) e fare in modo di spostare sempre un po’ più in avanti l’insorgere dei problemi. Vediamo come.

La prima regola è investire più di quanto ci si possa permettere. Serve per essere più bravi, più visibili, più vincenti rispetto ai competitor o almeno, se non si è all’altezza, darne comunque una rappresentazione verisimile. Spregiudicatezza è la parola d’ordine. Non importa se esiste un progetto a lungo termine di qualità. Conta l’oggi, conta alimentare il più possibile le casse dell’azienda per poter spendere e, se capita, spostare qualcosa verso i paradisi fiscali. Sul campo si può anche perdere, ma solo se la sconfitta non produce un’immagine di sobrietà e di mediocrità, poco compatibile con il reclutamento di sponsorizzazioni e nuove opportunità. L’importante è apparire di successo, anche se non si vince. E qui, prendendo il calcio ancora una volta come riferimento, il pensiero va all’operazione Cristiano Ronaldo alla Juventus F.C. Il management bianconero non ha esitato ad andare all In sul portoghese, campione già in là con gli anni e in totale controtendenza con lo stile Juve, ma uomo immagine superbo per acquisire entrature commerciali e per seguire la logica dell’apparire e far parlare di sé, magari nascondendo sotto il tappeto buono, la polvere dei tanti debiti.

Lavorare nell’ombra passo dopo passo non paga. Urlare obiettivi ambiziosi, anche se irrealizzabili, viceversa, consente di aumentare il denaro disponibile, permette di tessere relazioni basate sul reciproco interesse, anche al limite o oltre il consentito dalle leggi (plusvalenze può essere parola chiave in tal senso).

In generale, non importa costruire solidità patrimoniale ed economica. Conta soprattutto avviare un volano finanziario, via via sempre più cospicuo, in modo da essere un centro di gravità e di interesse all’interno di una comunità. Una volta ottenuto lo scopo, la politica che da sempre si è dimostrata molto sensibile all’elettorato degli stadi, anche solo per mero ragionamento numerico, chiude più di un occhio – Verona docet –. Nello stesso tempo, il sistema bancario lascia correre e permette esposizioni superiori all’accettabile. L’imprenditoria del territorio non può che supportare e sponsorizzare, vuoi per interesse certo, vuoi perché non si sa mai. In ogni caso, tutti si disinteressano dei conti aziendali, dai quali solitamente emergono debiti erariali, voci di discutibile valorizzazione e, in generale, un rischio di insolvibilità insostenibile che non può essere risolto con ricapitalizzazioni e cessioni d’azienda dai profili nebulosi.

Il settore sport, che da etico e valoriale era forse partito un tempo, si ritrova per lo più ad essere dunque un malsano strumento di consenso e centro lobbistico d’affari che nulla ha a che fare con l’essenza della pratica sportiva.

Lo sviluppo finale del sistema, porsi al di fuori della legge

Il periodo pandemico però ci ha fatto vedere di peggio. Come se lo sport fosse arrivato ad un ultimo stadio di evoluzione tale da porlo ancor più distante da quei valori sportivi che ritroviamo scritti in statuti sociali e carte etiche, ma ben poco applicati nella realtà pratica. Come considerare, per esempio, se non in questo senso, la quotidiana richiesta di sussidi allo Stato da parte del calcio e di altri sport popolari durante questo periodo pandemico? Sussidi che dovrebbero essere erogati in virtù di perdite subite causa coronavirus, ma che in realtà, per lo più, sono solo rappresentative di una mala gestione pregressa e corrente?
Con che faccia chiedere contributi allo Stato dopo che si sono messi a libro paga collaboratori sportivi pagando milioni e milioni di euro in commissioni agli agenti e stipendi ben superiori a quanto suggerito dall’accortezza imprenditoriale?

Eppure, lo sport, il calcio in prima battuta, quello che più ha la coscienza sporca in questo senso, ha chiesto e continua a chiedere aiuti, derogando alla propria immagine di vincente e di successo. Se lo fa è perché negli anni ha assunto una posizione di tale privilegio nel contesto sociale e nella comunità per cui nulla ha da temere. Poco importa che fosse già prima del Covid in una situazione tecnicamente fallimentare.

Gli esempi però di questo considerarsi oltre la Legge e al di fuori della Legge, non terminano qui. Se lo Stato ponesse l’accento e l’attenzione sui contributi a fondo perduto erogati ai collaboratori sportivi in tempo di pandemia scoprirebbe svariate tecniche per frodare le casse pubbliche. Questione forse di poco conto, se guardiamo alle masse finanziarie mosse dallo sport nel suo complesso, ma molto spiacevoli in un momento storico in cui un buon numero di cittadini non se la passa affatto bene.

Parimenti, appare molto sgradevole questo ergersi dello sport oltre la legge in termini di tutela sanitaria della popolazione. Chiedere la riapertura degli stadi, insistere contro ogni evidenza a favore di una prosecuzione di certe attività in tempi di lockdown, se da un lato è apparso comprensibile, dall’altro suggerisce l’idea che lo sport si senta più in alto rispetto alla propria comunità di appartenenza. Se non fosse così non ci sarebbero controversie continue tra Asl e Leghe, tra protocolli degli uni e degli altri. Invece, lo sport richiede una posizione di privilegio, contando sulla propria specificità e supposta purezza, richiamando a ideali romantici che, come abbiamo visto, oggi nulla hanno a che fare con lo sport di vertice.
 

In fondo, cosa compriamo dall’azienda sport?

Se guardiamo a questi temi dall’osservatorio del cittadino, la questione gravita attorno alla qualità del prodotto. Non è mai di buon senso guardare al passato con approccio nostalgico, ma siamo davvero sicuri che lo spettacolo sportivo venduto oggi sia un prodotto migliore rispetto a quello passato e che abbia una genesi, o produzione, sostenibile? La riflessione richiama esiti e risposte soggettive, ma è probabile che se molti degli appassionati facessero una seria analisi sul tema, acquisterebbero meno sport di quanto non facciano già ora. Le generazioni di adulti e anziani di oggi sono abituati all’acquisto del prodotto sportivo, lo faranno ancora, magari evidenziandone i difetti. Siamo però sicuri che le nuove generazioni, stanti questi presupposti, facciano altrettanto? I segnali non sono positivi e, in questo senso, il futuro potrebbe non essere affatto roseo per il mondo sportivo.
Forse è arrivato davvero il momento di un intervento strutturale di grande portata.

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