Qualche anno fa ci fu un genio che mise on line un “generatore automatico di scene di film di Sorrentino” (ora pare che non esista più). La cosa divertente è che metteva insieme le cose più assurde, ma coerenti con il Cinema del regista e sceneggiatore napoletano, del tipo “Una spogliarellista bielorussa meticcia canta “Ciao amore ciao” sul bordo della piscina olimpionica di un’isola caraibica privata e, nella scena successiva, una suora nana che fuma scatarra nella cantina degli champagne di una multinazionale del tabacco monegasca. A quel punto il protagonista disilluso dalla vita biascica «Venezia è bella, ma non ci vivrei». Dissolvenza. Scritta “Dedicato a Alberto Tomba”. Fine”. La cosa meno divertente, però, è che questo generatore sottolineava – in modo tanto arguto quanto impietoso – l’incedere di un irritante manierismo di un ottimo Autore che ormai stava diventando la parodia di se stesso.

Sorrentino l’ho visto crescere artisticamente e me ne innamorai subito grazie allo splendido debutto de L’uomo in più (2001); ci tengo a dirlo non tanto per giustificarmi per ciò che leggerete nelle prossime righe, quanto per farvi capire che chi scrive è da sempre un suo sostenitore (Le conseguenze dell’amore, visto con lui in sala nel 2004, resta ancora il mio titolo preferito nella sua filmografia), anche quando ha fatto cose un po’ discutibili o, addirittura, esageratamente sopravvalutate (ed è inutile che citi quale film, che tanto lo avrete capito da soli). Però ora basta, davvero: la visione di È stata la mano di Dio l’ho vissuta con fastidio e sofferenza, mentre gli spettatori attorno a me sembravano ridere e apprezzare le medesime cose che a me irritavano; ma ho resistito alla prima ora, anche se l’impulso di uscire era davvero molto forte e – lo ammetto – forse ho fatto bene, se non altro per poterne poi parlare qua.

L’ultima opera di Paolo Sorrentino è un’anima divisa in due: da una parte c’è il regista con ansia da prestazione, quello che deve dimostrare al mondo che le bizzarrie che utilizza per infarcire le sue pellicole fanno ormai parte della sua cifra stilistica di “grande Autore unanimemente riconosciuto a livello internazionale”; dall’altra c’è il regista più sincero, più nostalgicamente umano, quello che sa raccontare l’intimità del suo alter ego adolescente in modo forse anche brutale, ma sicuramente meno artificioso: la Napoli di Maradona, la sua famiglia, la prima esperienza sessuale, la tentazione delle brutte compagnie, la speranza di un’illuminazione da parte di un mentore che non vuole essere tale, la voglia di trovare una propria strada nella vita. E una tragedia che lo cambierà per sempre.

Peccato che Sorrentino abbracci in pieno la frase di uno dei suoi personaggi, ovvero «La realtà è scadente» e che su questo assunto ci abbia costruito il film, o buona parte di esso. Perciò via libera alle “felliniate” che già erano diventate insopportabili nel Cinema di quel genio di Fellini, figuriamoci per uno che vorrebbe imitarlo (qualcuno ha detto “citarlo”? Ancora?!?).

Con buona pace del body shaming, al quale evidentemente solo certi artisti ne sono immuni, ecco il Gran Circo del problematico Sorrentino, con tutti i freak che mancavano alla pellicola di Mainetti: la donna grassa in costume che si tuffa a bomba, il bambino cicciotto, l’uomo senza corde vocali con la voce robotica, la zia capezzolona che vorrebbe tanto ringraziare come fece Samperi nel 1968 (Grazie zia), la sorella chiusa in bagno che appare solo alla fine, la nonna impellicciata d’estate, l’anziana nobile decaduta con velleità da nave scuola abbandonata, la vicina con i canederli, l’emiro con la modella, lo scafista simpatico e violento, l’attrice di teatro che non sa recitare, il disadattato che trascorre tutte le giornate a pulire la propria Fiat 127 rossa… Manca qualcuno all’appello? Ah già: per i nostalgici della suora nana che fuma, al suo posto c’è il monaco bambino che benedice e, lo confesso, fino all’ultimo ho sperato che si rivelasse essere un Jawa (Star Wars, ndr) armato e bellicoso.

A un certo punto ho provato una forte nostalgia per la stramba famiglia capitanata sempre da Toni Servillo di È stato il figlio di Daniele Ciprì (2012), ma se questa è una pseudo autobiografia di Sorrentino che cosa potrei mai dirgli? Che mi dispiace per lui e per la sua curiosa famiglia, ma anche che mi dispiace che me l’abbia raccontata così, svilendo con macchiette e maschere caricaturali una bella storia che avrebbe meritato un po’ più di rigore e un po’ meno di esibito paraculismo.

Sorrentino mi è sembrato come quegli adolescenti che si ammazzano di pippe e che ridono delle deformità altrui, solo che di anni ormai ne ha 51. Qualcuno potrebbe obiettare che è normale che sia così, visto che È stata la mano di Dio è il romanzo di formazione di un ragazzo e la cosa avrebbe un senso, se solo non ci fosse quella persistente sensazione di artificiosità che ne mina l’autenticità per buona parte dei 130 minuti di proiezione. Accontentare tutti è sempre difficile e raccontare la propria infanzia piacendo a un pubblico universale (all’Academy per gli Oscar e agli abbonati di tutto il mondo di Netflix, che lo ha prodotto) lo è ancora di più, ma capisco che puntare a un mercato così vasto e bramoso di identificare gli italiani sempre nel solito, rassicurante e folkloristico modo sia una tentazione mica da poco.

Il regista Antonio Capuano (interpretato nel film da Ciro Capano) ad un certo punto chiede al giovane Sorrentino, desideroso di tentare con il Cinema: «Ma tu ce l’hai qualcosa da dire?».

Ecco, sicuramente qualcosa da dire Sorrentino ce l’ha, ma è il “come” il problema, perché la realtà sarà anche scadente, ma pure certi film non sono da meno.

Detto ciò, sicuramente nel torto ci sono io, perché È stata la mano di Dio è piaciuto praticamente a tutti, quindi andate a vederlo al cinema o, se proprio, aspettatelo su Netflix tra un paio di settimane.

Nel frattempo io continuerò a sperare in un risveglio artistico più sincero di un Autore che ho (quasi) sempre apprezzato.

Voto: 2/5

È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino con Filippo Scotti, Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Marlon Joubert, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Betti Pedrazzi, Biagio Manna, Ciro Capano, Enzo Decaro, Lino Musella, Sofya Gershevich, Monica Nappo.

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