L’Italia dell’atletica non si ferma più. Affamata di successi e di gratificazioni da un’atavica e secolare carestia di allori, non solo in ambito olimpico, non si sazia di avere l’uomo più veloce al mondo e l’uomo più bravo a saltare verso il cielo, ma spadroneggia un po’ ovunque. Prima di tutto nel suo territorio di caccia preferito, la marcia, dove piazza due nuovi incredibili successi con Massimo Stano e Antonella Palmisano nelle due gare di 20 chilometri.

Poi, non contenta, completa la propria olimpiade perfetta con il successo della 4×100, oro che può equivalere ad una vittoria della Giamaica in un mondiale di calcio, giusto per rappresentare la singolarità dell’evento.

La gioia della marcia (e come non pensare all’assente Schwazer)


Il doppio oro nelle gare su strada è figlio di una scuola italiana di marcia che mai aveva abdicato rispetto agli altri stati in termini di formazione tecnica, anche quando i risultati non arrivavano. Palmisano e Stano hanno vinto per motore, ma anche per favolosa pulizia tecnica, rispetto ad avversari decimati da squalifiche e penalizzazioni. I successi dei nostri portacolori ritornano a mettere in luce una disciplina classica ed elegante, che resiste con fatica alla modernità. Purtroppo, non la vedremo a Parigi 2024 nella sua più estrema manifestazione della 50 Km maschile, esclusa dal programma olimpico.

Antonella Palmisano, vincitrice dell’oro alla 20 chilometri di marcia, Tokyo 2020, foto Federazione italiana atletica leggera.


Questi allori non tolgono l’amaro in bocca per la mancata presenza a Tokio di Alex Schwazer, una partecipazione che avrebbe avuto contorni mediatici ed emotivi incredibili, ma che non si è perfezionata per un unico grande motivo. La giustizia sportiva, vedasi Tas di Losanna nello specifico, ha il diritto di non recepire una sentenza di un tribunale ordinario nazionale. Questo caso, come molti altri, prescindendo dagli specifici contesti, impone una tempestiva riflessione sui rapporti di forza tra giustizia ordinaria e sportiva. Che ci sia qualcosa da perfezionare è sotto gli occhi di tutti.

Quanto alla 4×100 maschile, è un sogno. Già lo era portare un uomo solo in finale nei 100 metri piani, già lo era vedere quell’uomo vincere, davvero impossibile pensare che un quartetto azzurro potesse competere con il mondo intero nella gara in cui è massima e corale l’espressione della velocità in pista. Forse una medaglia ci poteva stare, ma un oro… un oro era da non credere.

Lorenzo Patta, Marcell Jacobs, Eseosa Fausto Desalu e Filippo Tortu, questo il quartetto capace di tenersi dietro Stati Uniti e Giappone – autoeliminatesi -, Giamaica, Gran Bretagna, Canada e Cina. Eppure, la vittoria, arrivata per un centesimo con un ultimo “tuffo” di Tortu sulla linea del traguardo, anche se non sembra ancora vera a tutti gli appassionati, ha radici tecnico-tattiche molto concrete. Proviamo ad analizzarle.

Analisi di una gara impeccabile

La premessa iniziale, che vale ogni volta che si parla di staffetta, è che deve andare tutto bene. Se non si hanno quattro fenomeni in squadra, per vincere un oro olimpico occorre prima di tutto che la squadra azzecchi i cambi, che non faccia errori. Vale per tutte le nazionali, a maggior ragione per chi non ha margine sugli avversari. L’Italia, in tal senso, ha eseguito una prova magistrale. Perfetti i primi due cambi, leggermente schiacciato il terzo, ma sono dettagli. Da un punto di vista tattico, invece, c’è stata assoluta perfezione, nell’interpretazione in pista in primis, ma soprattutto nell’utilizzo delle risorse disponibili. Gli uomini a disposizione si sono infatti rivelati perfetti per ogni segmento di staffetta e sono stati assegnati alle singole frazioni con grande sapienza.

Lorenzo Patta, primo frazionista, colui che deve avviare la gara dai blocchi, è un buon partente (sesto tempo di reazione in finale, al cospetto del mondo intero per uno che di personale ha “solo” 10 secondi e 13 centesimi di personale sui 100) e ha interpretato la curva al meglio, perfezionando la sua personale “Gioconda” con un passaggio di testimone al compagno Jacobs, durato appena un decimo di secondo. Eccellenza assoluta.

Da Jacobs ci si attendeva molto, ma lui si è superato correndo la seconda frazione, quella più lunga, anche più forte rispetto alla finale individuale, segno di grande condizione ed equilibrio mentale e, ancora una volta, raggiungendo i 43 km/h, a testimonianza che il bresciano possegga davvero un lanciato “boltiano”. Non solo, ha pure eseguito alla perfezione anche il passaggio di testimone successivo, elemento che destava qualche preoccupazione perché, di solito, è proprio con i frazionisti più veloci che in staffetta emergono le difficoltà di cambio.

Il passaggio del testimone tra Marcell Jacobs e Fausto Desalu, foto Federazione italiana atletica leggera.

Desalu, che non è tra i primi mille velocisti del mondo in quanto a record personale, ha però interpretato la curva nel migliore dei modi, ha corso al suo massimo e ha garantito a Tortu di giocarsi le proprie carte sul rettilineo finale. Come è finita lo sappiamo tutti, ma sulla prestazione dell’atleta sardo c’è da spendere qualche parola in più. Fino a quest’inverno era il volto della velocità italiana, primo uomo ad abbattere la barriera dei dieci secondi con la maglia tricolore. Era arrivato a Tokyo non al meglio, ma non aveva potuto festeggiare l’egregio risultato di una semifinale olimpica nella prova individuale, oscurato dalle performance di Jacobs.

Era stato un po’ messo in soffitta dai media, velatamente criticato per non essersi espresso sui suoi tempi migliori. Da quarto frazionista aveva tutta la pressione addosso, chissà i suoi pensieri quando ha ricevuto il testimone in seconda posizione. Avrebbe potuto contrarsi, come in semifinale, avrebbe potuto sentirsi già un perdente. Attimi. Invece, Filippo ha messo in pista tutti i suoi tanti cavalli e ha corso un rettilineo in progressione, lucido, elastico, potente e decontratto. Ha recuperato e ha vinto.

Secondi di gara che non ci si può stancare di vedere e rivedere perché rappresentano l’essenza della velocità, l’essenza di questo sport. A livello tecnico e caratteriale Tortu ha messo in pista una prova di inestimabile valore, per lui e per l’Italia. Per il triennio successivo poteva essere additato come l’uomo sconfitto, il fallito, il velocista di secondo rango. Non è andata così. Bravo, bravissimo.

L’Italia dell’atletica ha dunque un oro per ognuno dei cinque cerchi olimpici. E nella velocità è una delle regine. Qualcuno potrà dire che non ha sconfitto gli Stati Uniti del Santa Monica Track Club (Marsch, Burrell, Heard, Lewis) o la Giamaica del record del mondo (Carter, Frater, Blake e Bolt), ma il tempo di 37 secondi e 50 centesimi, realizzato in finale, rappresenta in ogni caso un tempo eccellente, distante solo 14 centesimi dal record continentale, utile per diventare la quinta nazionale all time. Ricambio generazionale o meno, a Tokyo, per i colori azzurri, s’è fatta la storia.

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