La cronaca ci racconta che le selezioni di pallavolo e pallacanestro maschili sono state eliminate dal torneo olimpico. A braccetto tra loro nelle tempistiche, quasi a offrire una brutta copia di quanto successo nelle finali dei 100 metri e del salto in alto. I due risultati, però, vanno interpretati in maniera differente e ci offrono spunti di riflessione e insegnamento in termini di gestione di un torneo e di una gara.

Contro la Francia la nazionale di “Meo” Sacchetti ha offerto una prestazione gagliarda, ai limiti della perfezione per almeno 20 minuti, i primi. Mai doma, nemmeno quando il divario con i transalpini aveva superato la doppia cifra. Da underdog, gli azzurri hanno fatto una gran figura al cospetto di una possibile candidata all’oro, per il quintetto azzurro senza dubbio l’avversario più ostico da incontrare. Nicolò Melli e compagni partivano, infatti, sottodimensionati da un punto di vista fisico rispetto alle tante torri francesi presenti in campo, tra cui il miglior difensore del mondo Rudy Gobert. Se vogliamo proprio trovare un difetto nelle prestazioni dei singoli della nostra nazionale dei canestri, possiamo rilevare il mancato apporto di Nico Mannion e Stefano Tonut, due atleti che finora mai avevano mancato di offrire il loro contributo e il loro atletismo. Li giustifichiamo entrambi senza ombra di dubbio perché le loro penetrazioni hanno trovato immancabile opposizione nelle chilometriche braccia transalpine. Più merito degli avversari, dunque, che demerito loro. Si sono confermati a grandi livelli, invece, Danilo Gallinari, nonostante qualche acciacco, Simone Fontecchio, manifestatosi al mondo non solo come un tiratore eccezionale, e Achille Polonara, forse uno dei rimbalzisti offensivi più talentuosi del panorama europeo.
Se guardiamo all’andamento del match, l’uscita ai quarti di finale va in fondo archiviata con la consapevolezza che due tiri ben costruiti, se avessero avuto diverso esito, sarebbero bastati a cambiare le sorti dell’incontro. Rimane comunque un risultato di assoluto spessore anche perché, rispetto ad una Francia i cui giocatori principali sono all’apice della loro storia sportiva, per l’Italia questa rassegna ha rappresentato l’inizio di un nuovo ciclo, dietro al quale stanno maturando nuovi talenti oggi poco più che maggiorenni e dei quali sentiremo parlare a breve. Si è perso, è vero, ma lo si è fatto non accontentandosi del risultato già raggiunto, provando a vincere fino all’ultimo, senza snaturarsi al cospetto di avversario di rango. Segno di un sistema di gioco condiviso e di una mentalità in ogni caso vincente. C’è un futuro per questa nazionale, ne siamo certi.

La nazionale di “Chicco” Blengini, viceversa, ha perso contro pronostico. Nella sfida con l’Argentina il decisivo tie break ha emesso una sentenza di condanna per il sestetto azzurro, all’ultimo giro di giostra in termini di conduzione tecnica (“Fefè” De Giorgi era già stato nominato nuovo allenatore prima delle Olimpiadi ndr), e del proprio giocatore di maggior spessore tecnico e agonistico. Osmany Juantorena, infatti, non vestirà più l’azzurro e, per quanto visto a Tokyo, è una perdita non sanabile nel breve periodo. Prosegue dunque la maledizione olimpica del volley maschile, mai vincente per la famosa generazione dei fenomeni, anche se l’auspicio minimo era almeno quello di poter competere per una medaglia.
I problemi sorti in questa rassegna sono stati di due tipi. Il primo riguarda le aspettative troppo alte a confronto con il reale valore di questa squadra. Non perché si chiama Italia una nazionale deve essere per forza forte. Di sicuro questo organico ha giocatori di indiscutibile valore, ma forse è stato attribuito loro troppo presto l’epiteto di campione. Qualche fenomeno lo hanno tutte le nazionali arrivate ai quarti, anche la stessa Argentina. L’Italia ha dimostrato di averne uno, forse due, e tanti ottimi giocatori, non ancora, o forse mai, campioni. Qualità complessiva non sufficiente per dirsi “tranquilli” di arrivare a medaglia, o di superare di slancio i quarti di finale, pur avvantaggiati dal sorteggio.
Il secondo ordine di problemi è strettamente collegato al precedente. Chiunque faccia sport, alla vigilia di una gara, preferisce essere ritenuto più bravo dell’avversario perché significa avere, a parità di condizioni, più possibilità di vincere. Sappiamo, però, che il ruolo di favorito può nascondere delle insidie. Il principale tranello si verifica quando la gara diventa rognosa, equilibrata, in cui occorre mettere in campo anche armi non tipiche del proprio repertorio. La reazione peggiore che si possa avere è quella di cominciare ad abbassare la testa e di guardarsi spaesati chiedendosi cosa stia accadendo. Incontrare delle difficoltà è normale, anche se si è più forti, ma per chi si sente favorito, a volte, la stessa difficoltà diventa un problema di ardua soluzione. Ce se ne accorge in campo e fuori dagli atteggiamenti dell’atleta che, con il proprio linguaggio del corpo, manifesta l’assoluto stupore quando le cose non stanno andando secondo pronostico, dichiarandosi così, pur in maniera involontaria e inconsapevole, più forte dell’avversario. Questa reazione è rara nelle squadre in cui sono presenti tanti campioni veri, quasi assente nei gruppi veramente coesi. La conseguenza è non riuscire più a giocare con il giusto equilibrio tra convinzione nei propri mezzi, umiltà, serenità d’animo e fuoco agonistico.

Dire cosa non abbia funzionato nell’Italia del volley sarà compito dei tecnici, ma è evidente come l’Argentina, in modo del tutto palese, abbia saputo interpretare al meglio ogni momento in cui l’Italia sembrava prendere il sopravvento e poi si innervosiva nel vedere l’avversario sempre attaccato nel punteggio, confermandosi squadra di garra come poche.
L’impegno degli azzurri non è in discussione e nemmeno le loro qualità. Nemmeno si può affermare che il sestetto abbia bucato del tutto la partita, ma la sensazione è che in fondo ci sia stata quella punta di supponenza e presunzione che ha impedito di affrontare l’impegno con la massima centratura tecnico psicologica. Errore imperdonabile a questi livelli. Se il fondamentale della difesa è lo specchio dell’approccio di una squadra di pallavolo alla gara, non stupisce affatto che l’Argentina nel tie break sia stata due spanne sopra all’Italia proprio in difesa.

Alla luce di queste considerazioni, torna in mente torna quel famoso fuori onda di Blengini del 2018 durante la Nation League che, pur contestualizzato in uno specifico momento agonistico del quale non possiamo conoscere i contorni, ha rappresentato più di ogni altra cosa il modello di gestione di un gruppo portato avanti in questi anni. L’allenatore all’epoca disse: “Stasera siete liberi di uscire. Fate quel c…o che volete, è pieno di f..a. Unica cosa, lo sapete: non voglio domani mattina nessuno ubriaco sul pullman”. Non fu un discorso di spogliatoio, ma una frase di fine gara e, in tal senso, ad ognuno il suo giudizio. Mi permetto di dire che Mauro Berruto o Julio Velasco non l’avrebbero mai pronunciata.
Il corso tecnico cambierà e, con De Giorgi, anche lo stile.

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