A inizio 2021 l’annuale rapporto Istat sulla lettura, riferito al 2019 e quindi pre-pandemia, riporta che i lettori di libri in Italia sono il 40% della popolazione, contando le persone dai sei anni in su. Un dato che non si muove, sostanzialmente, e anzi dovremmo guardare con spirito di incoraggiamento, se pensiamo che nel 2000 era ancora più basso, il 38,6%.

Sono i giovani tra gli 11 e i 17 anni ad occupare la quota più alta, tra il 54 e il 56,6% in base alla fascia d’età, e complessivamente dovremmo parlare più di lettrici che lettori. Ad aver letto almeno 12 libri in un anno è solo il 15,6% e comunque per acquisire questa abitudine conta tanto, tantissimo il ruolo dei genitori: solo il 35,4% dei ragazzi prende in mano un libro nonostante mamma o papà non lo facciano. E qui il livello di istruzione incide altrettanto, perché la propensione alla lettura è numericamente più rilevante se l’adulto ha una laurea e vive in un’area metropolitana del nord.

L’ultima giornata del Festival del giornalismo di Verona tocca anche questi temi, grazie alla presenza di due direttori, Paride Pelli, del Corriere del Ticino, e Massimiliano Tonelli, ideatore di Artribune, piattaforma dedicata all’arte e alla cultura visiva contemporanea. L’affiancamento tra due Paesi così vicini rende evidente una diversità di fondo: l’Osservatorio culturale del Canton Ticino insieme all’Osservatorio linguistico della Svizzera italiana ha pubblicato un’indagine sulle abitudini di lettura in relazione alla fruizione del sistema bibliotecario.

Libri a un mercatino dell’usato

I dati riportano che il 79% della popolazione della Svizzera italiana legge almeno un libro all’anno, al pari della Germania e sotto ai Paesi Bassi (86%) e alla Svezia (90%), con sempre una prevalenza di donne.

Basta questo dato a dare il quadro del sistema culturale italiano? Certamente no, ma è un’evidenza che il sistema-cultura è in affanno e che il nostro Paese manca di una strategia complessiva e lungimirante.

Se una delle domande fondamentali per un giornalista riguarda a quale pubblico si stia rivolgendo, sapere di parlare a una nicchia sociale può costituire un rischio: oltre a quello di essere letto da pochi, c’è pure da tenere conto della ricaduta, dell’incidenza sull’opinione pubblica e sul nutrire uno spirito critico, sull’alimentare curiosità, interesse, non trascurando l’arricchimento del pensiero.

Tra la crisi del giornalismo e un certo analfabetismo di ritorno, in che modo possiamo oggi parlare di cultura e di informazione? Se la carta stampata da due decenni ormai ha smantellato la cosiddetta terza pagina, spalmando i quotidiani di contenuti un tempo raccolti in una sezione identificabile, ci ha pensato il web a dare spazio a progetti editoriali molto diversificati e, in alcuni casi, particolarmente efficaci in termini di coinvolgimento e fruizione.

Pubblico all’inaugurazione di una mostra

Cambiano così i processi, molta informazione è declinata sul ritmo degli eventi, rallentati in quest’ultimo anno e mezzo solo dalla pandemia, ma nella realtà sempre più capillari e raggiungibili proprio per il facile accesso ai canali di comunicazione e al peso dei social network.

Potremmo pensare che l’Italia sia quindi una Bella addormentata rispetto agli altri Paesi, eppure molte cose accadono, tante iniziative nei territori diventano notizia, la cultura non è più appannaggio accademico neppure sul fronte dell’informazione. E allora, chi è oggi il giornalista culturale? Può sopravvivere di fronte a un flusso di contenuti che gli riducono lo spazio critico e vincolano la voce del dibattito?

Non siamo forse oggi dentro a una inebriante giostra di eventi, di cui fatichiamo a comprendere il senso, generando così una sostanziale incomprensione delle proposte culturali?

Artribune è forse, tra le testate italiane, quella che più ha saputo interpretare queste trasformazioni: quest’anno compie dieci anni e si descrive come una piattaforma per la sua struttura e organizzazione. Cercheremo di capire con il direttore editoriale Tonelli quanto questo modello stia incidendo sull’editoria di settore e quanto riesca a coinvolgere più pubblici, magari anche quelli che sfuggono alle statistiche e non costituiscono né uno zoccolo duro di “colti” né la frangia maggioritaria dei disinteressati.

Perché potrebbe essere anche una questione di strumenti di cui, forse, molto giornalismo culturale fatica ancora ad accorgersi.

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