Elezioni politiche, tre candidati. Il primo consulta gli astrologi per prendere decisioni, mette le corna alla moglie, è un fumatore accanito e beve molti Martini. Il secondo ha già perso tre elezioni e avuto due infarti, fuma sigari come una ciminiera e beve fiumi di alcol prima di dormire. Il terzo è un eroe di guerra pluridecorato, tratta le donne e gli animali con rispetto, non fuma e si concede solo di rado una birra. Chi votereste?

È vero, puzza di domanda a trabocchetto, ma è proprio così che Thomas Vinterberg mette in scena un momento chiave del suo ultimo film Un altro giro, premiato lo scorso aprile con l’Oscar al miglior film in lingua straniera – nonché candidato alla meritatissima, ma non vinta miglior regia.

Tra commedia e dramma

La storia narra di quattro professori che, schiacciati dal peso di una vita mediocre, intraprendono un esperimento basato sulla teoria di uno psicologo norvegese. L’obiettivo è mantenere una dose di alcol costante nel corpo, così da accrescere l’autostima e il successo in campo sociale. I risultati saranno sì soddisfacenti, ma porteranno presto a situazioni estreme.

Empatizzare coi protagonisti è facile, quasi spontaneo. La narrazione inebria lo spettatore portandolo in loro compagnia dentro al film, barcollando fra i toni della commedia e del dramma.

Un convincente Mads Mikkelsen nei panni di Martin in Un altro giro di Thomas Vinterberg, distribuito da Medusa, foto di Henrik Ohsten

Non mancano momenti esilaranti, ma neppure lunghe scene drammatiche in cui emerge tutta la maestria del cast – capeggiato da Mads Mikkelsen. Il volto e la fisicità dell’attore sposano le necessità di un personaggio debole che, quando si vede sbattere in faccia la realtà, riacquista le forze da tempo perse danzando (letteralmente) sulla tragicità della vita.

La cifra di Vinterberg nel suo film più intimo

La regia di Vinterberg risente ancora del dogma, come del resto l’intera filmografia dell’autore da Festen in poi: camera rigorosamente a mano, fotografia naturalistica, inserti multimediali. Non un attaccamento alle origini, anzi. È la dimostrazione di come, dietro ad un film che tratta il tema dell’eccesso, non vi sia bisogno di eccedere filmicamente. Con eleganti movimenti, un uso sapiente della profondità di campo e i giusti piani d’ascolto, l’estetica della macchina a mano riesce a catapultare il pubblico in un vortice lento e inesorabile.

Si tratta forse del film più intimo del regista, portato a termine nonostante la morte della figlia diciannovenne durante la prima settimana di lavorazione. A non demordere lo ha invitato la figlia stessa, che qualche mese prima gli aveva rivelato essere il più bel film che il padre avesse mai scritto.

Un altro giro è il film che il mondo merita dopo una pandemia di cui solo ora, forse, intravede la fine. Perché ha avuto il coraggio di trasformare le difficoltà in slancio di vita, in voglia di rimettersi in gioco.

Libero da ogni moralismo, il film non si pente di manifestare gioia in situazioni che richiederebbero contegno e sobrietà. Dal primo all’ultimo minuto, è una parabola terapeutica che ci ricorda la nostra fallibilità di esseri umani e ci aiuta ad accettarla per amare noi stessi e il prossimo. Ma soprattutto, ci aiuta a guardare oltre le cose. La scena madre del film ne è l’esempio. Nessuno, tra gli studenti di Martin, sceglie i primi due candidati, giudicandoli uomini di vizio. Tutti, invece, optano per il terzo. Votandolo, escludono dalla presidenza Franklin D. Roosevelt e Winston L. Churchill… eleggendo all’unanimità Adolf Hitler! È proprio vero dunque quello che Martin insegna alla classe (e che Vinterberg ricorda allo spettatore): il mondo non è mai come ce lo si aspetta. 

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