Il prossimo 11 settembre, esattamente vent’anni dopo l’attacco alle Torri Gemelle, l’ultimo soldato americano lascerà l’Afghanistan, dopo un impegno costato 2.400 caduti, 20mila tra feriti e invalidi, 3mila miliardi di dollari spesi. Finirà così il più lungo impegno militare di Washington all’estero in una guerra mai ufficialmente dichiarata. Con quale risultato? Quasi nessuno, perché il ritiro, proprio in quella fatidica ricorrenza, consegna alla storia la sconfitta americana.

Per quali ragioni il Presidente Biden ha disposto il ritiro?

Innanzitutto per considerazioni politiche interne: il cittadino americano è stanco di queste “guerre infinite” che sono diventate anacronistiche, anche perché il bruciante ricordo dell’attacco a New York si è ormai diluito nel tempo e lo smantellamento delle cellule di Al Qaeda e l’uccisione dello sceiccco Osama Bin Laden hanno inferto un colpo quasi mortale all’organizzazione terroristica. Ci sono, però, anche ovvie ragioni economiche, visto che i 6mila miliardi di dollari bruciati in Afghanistan, Iraq e Siria non hanno alterato la situazione esistente sul terreno né portato pace e democrazia in quelle terre. Forse sarebbe stato meglio utilizzare quei fondi in Patria per sviluppare le infrastrutture o migliorare il sistema scolastico o  quello assistenziale – sanitario. Infine per complessive valutazioni strategiche, dato che gli USA non ritengono più vitale nel Medio Oriente una loro diretta presenza, visto che quelle fonti energetiche non interessano più a Washington, avendole trovate in Patria (shale gas) o al massimo nelle vicine Canada e Messico .

Biden, il quarto Presidente americano impegnato in Afghanistan (dopo Bush, Obama e Trump), si è convinto che una soluzione militare è di fatto impossibile data la conformazione del territorio, la difficoltà o mancanza di linee di comunicazione, l’omertà delle popolazioni locali, spontaneamente o forzatamente costrette a non “collaborare” con gli invasori, e la possibilità per i guerriglieri di colpire e trovare poi rifugio nell’accogliente Pakistan. Che una soluzione militare fosse difficile da conseguire lo avevano capito sia Obama che Trump, tanto che quest’ultimo aveva avviato tra il 2019 e il 2020 i primi contatti diretti con i Talebani. Decisione accolta con rabbia dal Governo afghano, che si era sentito escluso dalle negoziazioni e che, ammesso solo successivamente, non ha mai cessato di “remare contro” avanzando ripetute obiezioni per sabotare il dialogo.

Un acuto politologo, il Professor Friedman, ha avanzato nel frattempo una interessante ipotesi: tra le ragioni dell’abbandono americano, in questa lotta tra le Grandi Potenze per il dominio globale, è tempo di liberarsi “della zavorra” (le guerre tradizionali combattute sul terreno) per concentrare attenzione e risorse verso i mari (controllo delle rotte transoceaniche), lo spazio (satelliti e stazioni orbitali) e la dimensione cibernetica.

Cosa succederà adesso?

Tutti i commentatori sono concordi nel ritenere che il Governo afghano (uno dei più inefficienti e corrotti al mondo), nonostante i quasi 800 miliardi di aiuti militari ricevuti dagli USA in questi venti anni, non riuscirà a resistere a lungo alla pressione degli avversari. Potrebbero quindi aprirsi due scenari: o una laboriosa e fragile collaborazione o una guerra civile, che nessuno è in grado di prevedere quanto possa eventualmente durare. In entrambi i casi, comunque, i Talebani torneranno al potere.

Ma questi ultimi sono cambiati rispetto a venti anni fa? In parte sì perché non si troveranno più al bando della comunità internazionale (all’epoca erano riconosciuti da soli tre Paesi: Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) ma otterranno una patente di legittimità che potranno spendere nelle relazioni internazionali. In parte però sono rimasti gli stessi perché, pur sotto la guida di elementi “pragmatici” e pur avendo accettato nell’accordo alcuni compromessi, l’ala radicale vanta nel Paese la presenza di  alcune migliaia di ex Qaedisti e di ex militanti dell’ISIS .

Nel frattempo, però, anche il panorama internazionale è cambiato. Quali Paesi andranno quindi a riempire il vuoto lasciato dalla partenza americana?

Di sicuro calerà l’influenza dell’Arabia Saudita, dove la componente radicale wahabita è stata messa sotto controllo dal Principe ereditario Mohamed Bin Salman, che difficilmente si assumerà il  peso di una partecipazione a un possibile conflitto, dopo la disastrosa esperienza maturata nello Yemen. Aumenterà, invece, il prestigio del Pakistan, i cui militari hanno da sempre appoggiato i Talebani e che vedrà con piacere l’installazione a Kabul di un regime amico, in grado di garantire la “profondita’ strategica” sempre auspicata, vale a dire la non compresenza ai confini di due nemici quali India e appunto Afghanistan. Di converso, per opposte ragioni,  calerà l’influenza indiana. Ma vi sono altri attori che sembrano interessati a giocare le proprie carte: ad esempio la Turchia (che sta ospitando i negoziati di pace tra USA, Talebani e Governo di Kabul) e il Qatar, finanziatore di tutte le iniziative in politica estera di Ankara e ormai in rotta di collisione aperta con l’Arabia Saudita su tutti i fronti medio orientali.

Cina e Russia come reagiranno?

Mosca non avrà alcun desiderio di “impelagarsi” nuovamente nel conflitto afghano che già le costo’ 15mila morti tra il 1979  e il 1988. A Pechino, invece, l’Afghanistan interessa già da tempo, avendo realizzato investimenti importanti nelle infrastrutture e da dove potrebbe transitare un “corridoio energetico” proveniente dal Turkmenistan, alternativo al passaggio delle importazioni dallo stretto delle Molucche.

Che ne sarà della società civile afghana?

Tutte le previsioni volgono al peggio. I guerriglieri hanno negli ultimi mesi aumentato il numero degli attacchi “mirati” verso insegnanti, operatori sanitari, medici, avvocati, giudici, giornalisti, reporter. Numerose sono le donne cadute sotto il loro tiro. È evidente che i Talebani vorranno riproporre la loro visione di una società chiusa,  attaccata ai valori tradizionali e con un ruolo subordinato per le donne. Riuscirà la pressione internazionale a difendere le conquiste civili ottenute in questi venti anni dalla società afghana?  Speriamolo ardentemente, anche se il cammino appare molto in salita.

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