Nell’articolo, a firma Barbara Salazer, dal titolo Il Sultano rampante abbiamo letto come la Turchia stia sviluppando una politica estera “omnidirezionale”, ispirandosi a quel dominio di cui godeva durante l’Impero Ottomano. Per capire ciò dobbiamo tenere presente che “Chi ha avuto un Impero tende a non dimenticarlo mai”. Ma la spinta del “Sultano” ha anche un’altra origine: la Turchia ha vissuto la pace di Losanna del 1923, quella che ridusse il suo Impero alla sola porzione anatolica, come una grande ingiustizia e ora, giovandosi di circostanze favorevoli, intende (ri)proiettare la propria influenza ben al di fuori dello stretto imbuto anatolico.

Possiamo infatti vedere l’espansione turca come costituita da quattro cerchi concentrici: il primo è quello mediterraneo–balcanico, il secondo è quello medio–orientale e nord africano (con la recente aggiunta della Regione caucasica), il terzo è quello islamico, che va grosso modo da Sarajevo a Tripoli, dalla Somalia al Pakistan e all’Indonesia, il quarto,  infine, è quello pan–turanico, che comprende le popolazioni etnicamente e linguisticamente turche: in questo caso andiamo da Istanbul, passando per le Repubbliche ex Sovietiche dell’Asia Centrale, fino alla Regione cinese del Xinjiang, dove vive la minoranza uigura.

Il Presidente turco Erdogan

Ma per svolgere una simile politica occorrono molte risorse, più di quelle di cui sembrerebbe disporre oggi la Turchia, che ha un tasso d’inflazione al 12%, un livello di disoccupazione che va dal 13 al 22% (quest’ultimo riferito ai giovani fino ai 24 anni di età), un debito estero di oltre 150 miliardi di dollari, una contrazione delle esportazioni pari al 30%, un valore della lira turca in continua discesa. Come è possibile sopportare il peso di tanti impegni? In altri termini: come può una media potenza regionale svolgere una politica globale, che la pone, oggi, seconda solo a Stati Uniti e Cina? Prima di rispondere dobbiamo tenere presente che il turco è un popolo profondamente orgoglioso e fortemente nazionalistico e quando qualcuno fa appello al “Vatan” (la Nazione)  tutti i suoi 83 milioni di abitanti sono pronti  a rispondere. Il che significa capacità di accettare sacrifici anche pesanti in nome di un ritrovato ruolo internazionale dopo decenni di umiliazioni subite.

Ma la Turchia dispone oggi anche di risorse quali il  turismo, che rappresenta il 5% del Prodotto Interno Lordo (valore circa 5 miliardi di dollari), le rimesse dei migranti, che contano su una diaspora ammontante a quasi sette milioni di individui, di cui 5.5  in Europa occidentale. Inoltre nel settore della vendita di armi il Paese ha fatto passi da gigante. L’industria degli armamenti vale 11 miliardi di dollari, con esportazioni (in particolare nel Medio Oriente) pari a 3 miliardi e con  assetti di tutto rilievo, quali carri armati, autoveicoli, armamento leggero e pesante, ma soprattutto droni, tra cui i temibili Bayraktar TB 2, che hanno dato eccellente prova di se’ in Libia, Siria e in Nagorno Karabagh. Inoltre ci sono anche gli appalti ottenuti dalla ricostruzione di Paesi usciti dalla guerra (infrastrutture,  edifici pubblici e privati, centri commerciali e sportivi, moschee ecc.), l’appoggio dell’Emirato del Qatar – alleato di ferro della Turchia su tutti i fronti, nella comune difesa della Fratellanza musulmana – che lo scorso anno ha firmato uno cheque di 15 miliardi di dollari per sopperire alle difficoltà di bilancio di Ankara e, dulcis in fundo, l’estesissima rete di sostegno alla religione islamica, diffusa in più continenti e che si fonda su scuole coraniche e “madrasse”, ma anche su centri di assistenza alle fasce più deboli della popolazione. Tale azione, in particolare, si traduce in ritorni sotto il profilo culturale e religioso, ma anche su quello politico ed economico – commerciale.

Una mappa della Turchia che mostra, a seconda delle sfumature più o meno intense di rosso, dove si concentra la popolazione, che oggi ammonta a oltre 82 milioni di persone

Combinando abilmente gli elementi di cui sopra, ancorandoli allo spirito nazionalistico e contando su una posizione strategica unica tra Mediterraneo e Medio Oriente, Erdogan riesce ad alternare alleanze e amicizie di comodo, giocando con grande spregiudicatezza sulle rivalità tra le Grandi e le Medie Potenze dell’area (USA e Russia, ma anche Grecia, Cipro, Egitto, Iran, Israele, Arabia Saudita). Egli inoltre sa additare con maestria sempre nuovi obiettivi al suo Paese, per il raggiungimento dei quali si deve essere disposti a sopportare dei sacrifici.

Scavi nelle miniere turche in Anatolia

Tre esempi sono a testimoniarlo: la costruzione del Canale Istanbul, un nuova via d’acqua alternativa al Bosforo, ove dirottare l’eccessivo traffico navale (41 mila passaggi annui) che pesa, anche in termini ambientali, sugli Stretti; la scoperta di un enorme giacimento di gas nel Mar Nero, stimabile in 320 miliardi di metri cubi. Se la notizia sarà confermata, potrebbe rappresentare un toccasana per le finanze del Sultano, ora fortemente dipendenti dalla importazione di idrocarburi e ragione principale del ricorrente contrasto con la Grecia per lo sfruttamento delle risorse minerarie nel Mediterraneo Orientale; il proposito, infine, di utilizzare la manifattura turca per inserirsi nella competizione tecnologica globale, offrendo il Paese quale snodo per la produzione di beni “a basso livello” della catena globale dell’offerta (supply chain) in alternativa alla Cina, cogliendo l’occasione, da tutti invocata, per un accorciamento delle fonti di approviggionamento, i cui danni sono stati ampiamente evidenziati dalla pandemia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA