Il cambio di passo è rimasto nelle intenzioni. Lodevoli per carità, ma pur sempre solo intenzioni. Son passati quasi due mesi da quando è nato il Governo Draghi, l’uomo della provvidenza a lungo invocato e poi chiamato alla guida di un governo di unità nazionale o di salvezza nazionale, comunque la si voglia vedere. Asticella delle aspettative, complici le lodi di mielosa retorica spese dalla maggior parte dei media nazionali, posta molto in alto. Evidentemente troppo. Mario Draghi era ed è la miglior carta che il Paese, al collasso, poteva spendere per avere un po’ di respiro, questo è fuor di dubbio, ma la bacchetta magica non ce l’ha nemmeno SuperMario. Ci siamo affidati a lui come se fosse il nostro Franklin Delano Roosevelt, quello del miracolo del New Deal, e speriamo ancora lo possa essere, ma ogni giorno che passa il paragone si fa sempre più ingombrante. E non certo per colpa di Draghi. Come la colpa non era di Conte.

È passato un anno da quando il mondo è finito nei tentacoli della piovra virale; l’unica differenza rispetto al 2020 è che ora abbiamo i vaccini. Pochi, ma almeno li abbiamo. Per il resto le contromisure sono sempre le stesse: chiusure e distanziamenti. Non per inettitudine o chissà quali forme di sadismo sociale, ma perché, volenti o nolenti, quelle erano e quelle restano le uniche misure efficaci per arginare il disastro.  E invece niente; risulta più facile esporre Ministro della Salute e Cts, con la complice assistenza di abili e seriali cavalcatori di tigri, alla gogna dell’opinione pubblica. Draghi è uomo parco di parole, ma almeno due potrebbe anche spenderle a loro tutela. Da fare ci sarebbe una sola cosa: approfittando delle chiusure, dovremmo vaccinare a tappeto la popolazione per impedire al virus di circolare e modificarsi in molteplici e sfuggenti varianti. Non lo stiamo facendo, vuoi perché i vaccini a disposizione sono ancora pochi, ma vuoi anche per colpa di chi anziché mettere in sicurezza prima di tutti i soggetti fragili, ha allargato il campo alle categorie più svariate, tipo avvocati, magistrati, impiegati amministrativi nel settore sanitario, e insegnanti con le scuole chiuse. Ci hanno provato anche i giornalisti, ma gli è andata male. Così finisce che nel Paese dei furbi la vaccinazione proceda sugli stessi ritmi dei nostri partner europei, ma si continui a morire di più.

I Presidenti delle nostre Regioni

Le Regioni fanno gara a mostrare il peggio di sé andando, chi in una direzione, chi in un’altra, in ordine sparso senza una linea guida comune. Un sistema Arlecchino che non fa che produrre guai. Ai presidenti, finiamola una buona volta con la burlesca manfrina dei Governatori, Draghi ha riservato una tirata di orecchie; per tutta risposta, i satrapi si son risentiti: Eugenio Giani, presidente della Regione Toscana, è arrivato a dire: «Non ce l’aveva con noi». E con chi sennò? Con Cesare Prandelli per aver alzato bandiera bianca e lasciato la panchina della Fiorentina? Non è un bel vedere. Si pensa solo a guadagnarsi un buon voto in pagella da spendere alle elezioni, piuttosto che agire in modo omogeneo e coordinato per il bene comune. Quando poi i nodi vengono al pettine, assistiamo alle solite commedie da scaricabarile. Cose trite e ritrite.

Draghi ha cambiato qualche pedina nella guerra al virus: ha nominato Fabrizio Curcio alla guida della Protezione Civile, e ha chiamato un militare, il Generale Paolo Figliuolo quale commissario alla lotta alla pandemia. Al di là delle intenzioni e dei pomposi annunci – il Generale è un tipo simpatico, assai loquace, ha pure più mostrine e onorificenze del Generale Patton – il cambio di passo non si è visto. Le fatidiche 500.000 dosi al giorno, se va bene, le raggiungeremo a fine aprile, più probabile a maggio, e su AstraZeneca abbiamo visto di tutto e di più, tra brusche frenate, soste ai box, e repentine inversioni di marcia. La panacea di tutti i mali pare essere nell’attesa messianica del vaccino monodose Johnson&Johnson: speriamo lo sia, ma è giusto sapere che appartiene alla stessa famiglia dell’AstraZeneca. La realtà dice intanto che il piano vaccinale, povere Primule…, arrancava prima e arranca adesso. D’altronde, se ‘sti benedetti vaccini non li hai, hai voglia te a fare i proclami.

Viktor Orban e Matteo Salvini

C’è poi il quadro politico sul quale il governo si regge: un minestrone in cui non passa giorno senza che un fuoriclasse di demagogia da bar sport come Matteo Salvini non tenga un piede in due staffe; sta al governo ma ne stigmatizza i provvedimenti lisciando il pelo ai commercianti (le vere vittime del giochino sono loro), e in un batter di ciglia lo scopri europeista, salvo poi ricordarsi dei galantuomini di Visegrad e ritrovartelo a prendersi a baci e abbracci con i premier di Ungheria e Polonia, Viktor Orbán e Mateusz Morawiecki, due signori che l’Europa la vedono col fumo negli occhi. Comportamento lineare, limpido e coerente, che avrà di sicuro fatto un gran piacere a Mario Draghi.

E veniamo infine ai Ristori, anzi pardon… ora si chiamano Sostegni. Zuccherini che poca roba erano prima, e poca roba sono adesso. Perché nella mangiatoia di un Paese corrotto che vanta una voragine di debito e un’evasione fiscale pari a un Pil, le risorse scarseggiano. Il conto che il Covid ci ha sbattuto drammaticamente in faccia è questo. Così succede che la gente stavolta s’incazzi e vada a urlare in piazza, perché sarà tutto quello che vuoi, ma mica è fessa. Un anno fa correvano i giorni naif dei coretti e le canzonette sui balconi. Sembra passato un secolo, ma siamo daccapo. Servono risposte chiare, rapide e concrete.  Urge quel cambio di passo tanto decantato, ma che ancora nessuno vede. Tutto ciò che si è visto finora è solo un cambio di semantica. A conti fatti, un po’ poco. Correggiamoci pure, meglio dire troppo poco.

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