Mancava solo lui, a essere domato nella stagione fredda. Il K2 si è finalmente arreso. Uno degli ottomila più difficili da un punto di vista tecnico e tra le vette del Karakorum più esposte ai jet-stream, i venti gelidi che rendono tremende le salite in quota in inverno, è definitivamente capitolato il 16 gennaio 2021. L’uomo è così finalmente riuscito a scalarlo, dando termine a un’era dell’alpinismo.

Da anni l’elite mondiale degli scalatori hymalaisti si stava, infatti, concentrando sempre più su questa grande sfida alpinistica e logistica, ritenuta dai più una pura follia e vista e narrata da tutti i media come quella barriera da oltrepassare per ridefinire ancora una volta i limiti dell’impossibile.
Ci sono riusciti in dieci, un’enormità se pensiamo che il K2 spesso si nega per anni interi anche dall’assalto delle spedizioni estive. Ci sono riusciti degli sherpa, tutti insieme, capaci di scendere e salire senza mai disunirsi, anzi, sapendo sommare le forze di più spedizioni distinte, ma con in testa un unico grande obiettivo.
Con questa azione hanno messo a tacere in un colpo solo migliaia e migliaia di benpensanti. Tutti in silenzio ora: quelli che ancora ritengono gli sherpa solo dei validi portatori, buoni per i pesanti carichi ma dalla scarsa tecnica e abilità organizzativa, così come quelli che disquisiscono ancora se l’inverno vada definito secondo parametri metereologici o astronomici. La conquista del K2 a gennaio non lascia spazio ad alcuna contestazione, né dall’una e né dall’altra fazione.

C’era poi chi da sempre ha ritenuto impossibile creare un vero senso di appartenenza e collaborazione ad alta quota quando l’ossigeno scarseggia e il rischio per la propria vita trasforma l’uomo in bestia, dedita all’autoconservazione più primitiva. Niente di tutto questo! Solo storie costruite nei decenni per mettere a tacere l’opinione pubblica, per giustificare gli insuccessi dell’uno o dell’altro alpinista, per creare una narrazione dell’alpinismo utile solo a costruire leggende nazionali. In tal senso la montagna oggetto dell’impresa e la nostra italianità non possono che richiamarci alle vicende della spedizione, proprio sul K2, guidata nel 1954 da Ardito Desio, una pagina di successo dell’alpinismo nostrano ma al contempo anche uno dei momenti più tristi, tra silenzi, accuse reciproche e mistificazioni, chiarite solo cinquant’anni dopo.

Questi Sherpa, con la loro fresca impresa, stavolta l’hanno veramente combinata grossa. Prima di loro, si diceva che sugli ottomila, in primis durante il periodo invernale, occorresse grande acclimatazione e almeno un mese di permanenza al campo base, requisito minimo per provare a realizzare qualche spedizione di successo. Lo avevano testimoniato le esperienze passate, non solo quelle fallimentari sul K2. Ebbene, Nirmal Purja – uomo capace di salire tutti gli ottomila in un anno solare – e i suoi compagni sono saliti sostanzialmente effettuando una sola rotazione. Si diceva, poi, che dallo Sperone Abruzzi, tipicamente dove è sito l’ultimo avamposto a 7800 metri di quota dai quali ci si lancia per il tentativo di vetta, fosse impossibile salire in cima senza ulteriori campi intermedi. O almeno la credenza era quella, visto che nessuno d’inverno sul K2 aveva mai fatto prima d’ora un vero e proprio tentativo di raggiungere la sommità, salvo Denis Urubko in solitaria. La squadra, guidata da Chhang Dawa Sherpa, se n’è infischiata delle opinioni altrui ed è arrivata in cima. Certamente molto tardi, a pomeriggio inoltrato, che di solito non è orario raccomandabile per affrontare la discesa, ma quando si è forti, coesi e determinati, gli azzardi si trasformano sovente in trionfi.

In una disciplina che non si può chiamare sport per la sua naturale assenza di regole scritte, questi temerari sherpa hanno dunque saputo creare un codice di collaborazione tale da trasformare un gruppo dalle eccellenti qualità nella spedizione forse più forte mai vista prima su una montagna. Tale affermazione può far certo discutere, ma non si può negare ciò che il team organizzato dall’agenzia Seven Summit Treks ha dimostrato in queste settimane sul K2, non solo in termini di prestazione fisica e tecnica, ma anche in termini di capacità di reclutamento di fondi, di competenza nella comunicazione e, infine, di professionalità organizzativa e logistica. Questa spedizione ha davvero creato uno sconquasso nel mondo alpinistico, per certi versi così innovatore, ma anche così fedelmente avvezzo alla tradizione, a volte perfino reazionario.

Un solo neo accompagnerà in eterno l’azione dei dieci valorosi eroi nepalesi: l’uso dell’ossigeno. Nirmal Purja, in verità, ha dichiarato di non averlo utilizzato e questo rappresenterebbe, per lui e per la spedizione in generale, un dettaglio affatto trascurabile, tale da trasformare l’impresa in qualcosa di epico. In attesa di verificare con esattezza se l’ossigeno sia stato utilizzato o meno da tutti gli sherpa durante l’ascesa, appare chiaro che discussioni e malumori si stanno diffondendo tra i soliti benpensanti. L’ossigeno è dichiaratamente una fonte di aiuto esterno che riduce la probabilità di mal di montagna e il rischio di congelamenti. Per molti è il doping dell’alpinismo, per altri solo il necessario per salire, specie se di professione si attrezza la via per altri alpinisti. Sconfessando fin da principio le accuse di doping, parola che identifica ciò che è vietato – e l’ossigeno non lo è -, appare evidente che l’utilizzo delle bombole debba essere registrato tra quegli elementi che ognuno può valutare e qualificare a proprio piacimento nel valorizzare l’ascesa di una montagna impegnativa come il K2. Rimane il fatto che il successo ottenuto non possa essere affatto sottodimensionato. In ogni caso, appare del tutto discutibile parlare di ossigeno senza citare altri elementi che determinano la difficoltà di un’impresa. L’uso di nuove tecnologie e sofisticati abbigliamenti, l’acclimatamento preventivo in camere ipossiche, l’uso di medicinali, così come l’avvalersi o meno dell’attrezzaggio altrui della parete. In ultima istanza occorrerebbe citare la variabile del tutto imponderabile del meteo, che rende impossibile equiparare spedizioni diverse in periodi e anni diversi. Le condizioni meteorologiche sono state, così come per tutti i successi invernali della storia, il vero jolly in mano ai nepalesi, capaci di sfruttare a dovere una finestra di bel tempo più tipica dell’autunno del Karakorum che dell’inverno. Tra tutte le altre spedizioni presenti al campo base però, solo loro sono stati capaci di cogliere l’opportunità, giocando d’anticipo, sentendosi pronti quando c’era da osare. Un merito che non può essere adombrato tirando in ballo solo un’eccezionale buona sorte.  

Da domani l’alpinismo entrerà dunque in una nuova era così come Walter Bonatti, Reinhold Messner e tanti altri seppero fare attraverso le loro gesta, capaci di segnare un’epoca, influenzando un’intera generazione di alpinisti. Dovremo rendere finalmente onore a questi sherpa, da sempre all’ombra di europei e americani di fama mondiale, ma decisivi nei loro successi fin da inizio Novecento. La loro ascesa rappresenta il ragioniere che diventa manager o l’operaio che diventa imprenditore di successo. La speranza è che ciò corrisponda, in patria e tra i turisti dell’alta montagna, a un progressivo miglioramento delle condizioni di lavoro di tutti gli altri sherpa che mai saliranno il K2 d’inverno, ma che ugualmente rischieranno ogni giorno la vita sulle montagne. L’alpinismo, inoltre, dovrà anche fare i conti con una nuova era, in cui i limiti, e i rischi, si sposteranno ancora un po’ più lontano. Il K2 attende ancora di essere salito in invernale senza ossigeno, magari in solitaria, magari da versanti più impegnativi rispetto alla via normale, forse anche salendo e scendendo in un’unica azione e a tempo di record. I limiti sono di chi se li pone, ma nel fare questa inflazionata considerazione, occorre anche valutare se la giusta etica nell’approcciare la montagna e il suo ambiente, sia solo quella by fair means – con mezzi leali – tanto professata dagli alpinisti, o se invece lealtà significhi oggi rispetto verso la vita e verso i rischi della montagna, significhi magari, in conseguenza, ricercare un radicale e diverso approccio, meno sportivo e prestazionale, in cui la conquista della cima torni ad assumere una valenza relativa rispetto all’esperienza del cammino e dell’esplorazione.
Difficile pensare che ci si sposti verso questa direzione nell’evoluzione delle attività alpinistiche, ma in questo inverno non si poteva non parteggiare almeno un pochino per il K2, accerchiato, imbrigliato nelle corde, preso a tradimento in una finestra meteo simbolo più che mai del cambiamento climatico che rende fragile ed esposta la montagna e, infine, domato con estremo vigore e contagiosa esuberanza. Singolare, invece, che a contribuire a tale sfregio siano stati proprio dei nepalesi, popolo che, per culto e tradizione, al salire in cima preferisce girare intorno.