Tadej Pogacar è il re del Tour de France 2020. Lo avevamo preannunciato già alla vigilia della partenza, che la Grand Boucle di quest’anno non sembrava improntata a ripercorrere il solco della tradizione. Eppure, era difficile immaginarsi una corsa così anomala, avvincente e sorprendente fino all’ultimo giorno di battaglia. Merito appunto del ventunenne sloveno, capace di spodestare il principale avversario e conterraneo Primoz Roglic, fin lì dominatore del Tour, nel corso della cronometro della ventesima e penultima tappa.


Tanti sono stati i record abbattuti da Pogacar al termine di queste tre settimane di gara: primo sloveno a chiudere in maglia gialla a Parigi, atleta più giovane a vincere dal dopoguerra ad oggi – per giunta da esordiente – e “cannibale” di ben tre classifiche – generale, miglior giovane e miglior scalatore -, risultato che non si vedeva per l’appunto dai tempi del vero cannibale, alias Eddy Merckx. Se a questi record aggiungiamo quello di aver migliorato i tempi di scalata su ben cinque salite effettuate, spostando ancora una volta più in là i limiti umani, inconcepibili per qualsiasi buon atleta, il quadro appare completo. Un dato su tutti: nell’ascesa al mitico Peyresourde, salita di 10 km all’8% medio, Pogacar ha letteralmente aggredito l’asfalto ad una velocità di poco inferiore ai 24 km/h. Per farlo, ha spinto sui pedali sviluppando fino a 880 watt, potenze che nemmeno Lance Armstrong e Marco Pantani riuscivano a sprigionare (fonte cyclingnews.com). Sono dati, questi, che allontanano l’uomo comune dal campione quanto il correre la maratona sotto alle due ore; distanze siderali. Sospetti? Sarebbe ingiusto parlarne, almeno fino a prova contraria. Più interessante, invece, rilevare come in uno sport in cui tradizionalmente si arriva a maturazione in età adulta, intorno ai 27-30 anni, se non a volte addirittura di più, oggi siano i corridori più giovani a registrare prestazioni incredibili, come se si fosse abbassato di almeno 5 anni il prime della carriera di un ciclista. Da questa analisi possono derivare ulteriori sospetti? Difficile a dirsi, specie perché non esiste un termine di paragone esente da doping e al di sopra di ogni ragionevole dubbio da prendere come riferimento. Quel che è certo è che i giovani talenti oggi si adattano in fretta alle corse professionistiche. Vedremo con gli anni se questo avrà un prezzo in termini di longevità agonistica dei più precoci.

Un’immagine della corsa francese


Tornando al vincitore del Tour, occorre rilevare che la grandezza di Pogacar non risiede solo nei freddi numeri e nei record, ma anche in una condotta di corsa frizzante e appassionante. Da troppi anni ormai, specie durante la prestigiosa corsa a tappe d’oltralpe, non si vedeva un atleta dare spettacolo quanto ha saputo fare il campioncino sloveno. Nonostante la giovane età e la scarsa esperienza di grandi giri – in precedenza aveva corso solo la Vuelta Espana 2019 -, Pogacar ha corso all’attacco con grande maestria e sagacia tattica, trasformando in vantaggio il limite di non poter contare su una squadra competitiva. Le tappe passavano e il tifoso, vedendo dominare la Jumbo-Visma, sempre davanti e sempre pronta a tirare e proteggere Roglic, si convinceva chilometro dopo chilometro che alla fine avrebbero vinto loro, tutti in divisa gialla, quasi una profezia. D’altra parte, mentre gli altri avversari cedevano uno dopo l’altro – di schianto Thibau Pinot, Egan Bernal e Nairo Quintana, poco alla volta i restanti – Pogacar rimaneva entro il minuto di distacco dalla maglia gialla provvisoria. Non solo, era sempre pronto a mettere la testa fuori dal gruppo, attaccando nelle rare volte che il percorso lo permetteva e nei momenti in cui la Jumbo-Visma appariva aggredibile. Mentre Roglic ha corso da padrone questo Tour de France, gestendo con il bilancino le forze come la storia recente ha insegnato, Pogacar ha utilizzato un metodo tutto suo per farsi valere. Verrebbe da dire un po’ alla Vincenzo Nibali, aggressivo e battagliero, un po’ Geraint Thomas, ragioniere dei pedali. Ogni suo scatto, però, è sembrato condivisibile e utile, a volte per prendere gli abbuoni, a volte per mettere pressione all’avversario. In sostanza, Pogacar è stato capace di beneficiare del lavoro della squadra di Roglic almeno quanto Roglic stesso. E così, mentre qualcuno avanzava come unico rischio per il buon Primoz il prendere una “cotta” sulle ultime salite, queste passavano senza sussulti, escluso quelli riferibili allo sgretolarsi delle ambizioni degli atleti francesi, poi dei colombiani, infine degli spagnoli e di tutti gli altri. Per Roglic sembrava dunque quasi fatta, maestro com’è nelle corse a cronometro. Invece, proprio quando nessuno più credeva al ribaltone, nei 6 km finali della Planche des Belles Filles, a sorpresa è andato in scena il dramma sportivo per eccellenza: la sconfitta all’ultimo metro, dopo aver assaporato a lungo la vittoria. Diciamolo: Roglic non è andato affatto piano e avrebbe potuto essere un degno vincitore del Tour in molte altre edizioni del Tour, semplicemente Pogacar è andato più forte, talmente forte da aggiudicarsi la cronometro e frapponendo distacchi abissali tra sé e gli avversari. Corsi e ricorsi storici che gli almanacchi riportano: ogni volta che si arriva alla Planche des Belles Filles la maglia gialla cambia padrone. D’accordo le novità, ben vengano i cambiamenti, ma alla storia non ci si può opporre. Lo ha capito bene Roglic, in lacrime all’arrivo della cronometro e inconsolabile. I tecnici ora si interrogano sui materiali scelti durante la corsa contro il tempo – eventualità alla quale davvero non si può credere e che porrebbe in discredito la Jumbo-Visma -, ma davvero contro questo Pogacar c’era poco da fare, a prescindere dal caschetto utilizzato.

Il Tour de France, però, è stato ben di più del duello tra i due atleti sloveni. Grande risalto ha avuto la sfida per la maglia verde che ha animato le tappe meno rilevanti per la classifica generale. Merito della Bora Hansgrohe di Peter Sagan, già vincitore in altre sette edizioni, ma che questa volta ha dovuto soccombere al velocista Sam Bennett, vincitore anche sugli Champs Elysees, non solo all’anagrafe. Il premio come super combattivo, invece, è andato allo svizzero Marc Hirschi, altro giovane talento del ciclismo mondiale, che oltre a vincere una tappa, ha mostrato la sua classe sopraffina in molte occasioni. Menzione anche per Wout Van Aert in veste di gregario, terzultimo uomo del treno Jumbo-Visma sulle salite, ma anche velocista capace di due successi parziali – occhio a lui per il Mondiale di Imola di fine mese – e Lennard Kamna, vincitore di tappa, tante volte in fuga, sempre pronto ad aiutare i propri compagni ma, soprattutto, ciclista di eleganza sopraffina.

L’Italia del ciclismo si accontenta di una Top Ten di Damiano Caruso, luogotenente per eccellenza, che ha saputo piazzarsi in classifica generale nonostante abbia corso tutto il Tour a servizio del suo capitano Michael Landa. Bravissimo, ma per il tricolore sono ben lontani i tempi in cui Marco Pantani e Vincenzo Nibali facevano sognare i tifosi dello stivale. Zero tappe vinte e una complessiva sensazione di inconsistenza. Mancavano i nostri big ma, soprattutto, manca all’orizzonte un ricambio generazionale nelle corse a tappe.

L’edizione 2020 del Tour de France si chiude con la consapevolezza di un cambio di passo inteso come variazione dei modelli di organizzazione della competizione e grande fermento del movimento ciclistico, senza dimenticare il continuo nascere di nuovi talenti ciclistici. Il percorso è stato azzeccato, nonostante abbia trascurato il passaggio sui mitici passi pirenaici e non abbia nemmeno guardato agli abituali luoghi alpini di pellegrinaggio ciclistico. Ha presentato un’ottima varietà di tracciati e salite di diverso genere che hanno animato la gara, privilegiando la completezza dei corridori alla specializzazione. Avanti di questo passo verranno meno i velocisti e i cronomen puri, ma di questi argomenti si può discutere all’infinito senza trovare soluzioni che soddisfino tutti. È mancata senz’altro una “tappaccia” da correre oltre i 2000 metri, stile Izoard, ma è stato un Tour ampiamente da promuovere.