Luccicanti alberi di Natale. Il calore dei camini accesi. Invitanti piatti tipici. Più che il loro sapore o gusto, in questi giorni abbiamo potuto osservarli da uno punto di vista speciale: quello dei nostri smartphone. E in questo particolare periodo utilizziamo i canali social per sentirci un po’ più vicini gli uni con gli altri, per colmare in parte quella distanza che tanto inibisce le nostre emozioni. Ma cosa scegliamo di condividere sui social? E perché lo facciamo?

Nell’era dell’interconnessione e del perfezionismo, il nostro Io è ancora di più il prodotto dell’incontro tra le nostre immagini sociali. Perché l’ambiente in cui viviamo evidenzia le nostre caratteristiche e ci contrappone a ciò che non siamo.  Così decidiamo cosa mostrare agli altri, integrando la nostra immagine reale e virtuale, fondendole comunque in un’unica personalità. Infatti, nonostante si scelga attentamente cosa rendere pubblico, quello che manifestiamo assomiglia sempre più al sé in carne e ossa. La “maschera” della letteratura pirandelliana, a cui la persona è vincolata e a cui non può rinunciare, risponde sempre di più ad alcuni nostri bisogni. E il bisogno di ammirazione credo possa essere considerato il motore nell’utilizzo di questi canali di comunicazione. Il desiderio di offrire all’altro, anzi sempre più a una platea di persone, un’immagine che si avvicini alla nostra individualità, ma che allo stesso tempo conceda a chi guarda la parte migliore di noi. Perché, anticipando il giudizio dello sguardo altrui, persiste il desiderio di fare una buona impressione. E sentirci riconosciuti, oltre a incrementare la nostra autostima, ci permette di rimanere in relazione con gli altri, senza sentirci isolati. Perché oggi sembra essere particolarmente difficile fare i conti con il vuoto, visto come assenza.

Ma i social non soddisfano soltanto il bisogno di ammirazione, bensì anche quelli di appartenenza e di stima. Abraham Maslow, già nel 1954, presentandoci la Piramide dei Bisogni evidenziava da una parte l’importanza di sentirsi amati, di far parte di un gruppo, di partecipare come elemento importante della comunità. Dall’altra metteva in risalto l’influenza del sentirsi approvati, rispettati, percepiti come persone valide, affidabili e degni di considerazione. Ancora una volta, i social ci possono dare la possibilità di respirare la forza dell’essere in relazione, ma a quale costo?

Generalmente sembra non esserci molto tempo a disposizione, perché la nostra epoca vive l’attimo, nel qui e ora. E così anche i nostri bisogni devono essere tendenzialmente soddisfatti senza troppa attesa o frustrazione. Allo stesso modo, il sentirci riconosciuti dagli altri, frequentemente concretizzato dal numero di like, può svanire rapidamente e richiederci di rispondere ad alcuni bisogni nuovi. Così, la nostra identità si adegua prontamente alle regole della società.

Questa costante ricerca ci porta ad adattarci continuamente, pur di ricevere l’approvazione dagli altri. Ma in questa situazione mi domando: ciascuno di noi riuscirebbe a definirsi? Che cosa significa essere unici? E quale valenza assume?

Infatti, nonostante i risaputi numerosi benefici della rete, non possiamo non considerare i possibili rischi che si celano dietro questo avido processo. Sembra essere sempre più difficile conoscersi, accettarsi per come si è, riuscire ad essere critici di fronte alle richieste che ci giungono da chi ci sta attorno, senza tener conto dell’immagine, o della storia della nostra identità, che ne viene conservata sui social. Allo stesso tempo, il nostro desiderio di una stabile perfezione non ci consente di mostrare sbavature. E allora mi domando, siamo davvero online oppure il nostro stato è offline?