Nel febbraio dell’897, tra le mura della Basilica Lateranense a Roma si tenne un macabro rituale passato alla storia come il “Sinodo cadaverico”. Il corpo di Papa Formoso, morto da 9 mesi, fu esumato dietro ordine del suo successore Stefano VI, rivestito dei paramenti pontifici, sistemato su un trono e processato postumo per eresia. Al termine del processo il cadavere, riconosciuto colpevole, fu trascinato per le vie della Città Eterna e gettato nel Tevere, in una sorta di linciaggio post mortem. Barbarie talmente grottesche da essere ridicole, direte voi. Eppure, più di 1100 anni dopo scene simili si stanno ripetendo nelle città del “civilissimo” Occidente, dove statue di personaggi del passato accusati di essere razzisti non hanno nemmeno il beneficio di un processo farsa come quello che toccò alle spoglie di Papa Formoso, venendo semplicemente abbattute dalla folla e gettate nel corso d’acqua più vicino, oppure imbrattate in un gesto di spregio. La mente non può che ritornare alla profanazione delle tombe reali di St. Denis compiuta dai rivoluzionari francesi, simbolica catarsi del passato.

Tutto è partito dal movimento #BlackLivesMatter. Esploso come protesta spontanea a seguito dell’uccisione ingiustificata da parte della polizia di George Floyd, si è esteso a macchia d’olio in tutti gli USA e in Europa occidentale. La brutalità della polizia nei confronti delle minoranze assieme alle sempre più accentuate diseguaglianze economiche già da diversi anni stanno rendendo incandescente il clima sociale negli USA e l’assassinio di Floyd da parte della polizia è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Alle proteste di piazza si sono sovrapposti saccheggi e violenze ingiustificate che nulla hanno a che vedere con le rivendicazioni di equità sociale da parte delle minoranze, ma il fulcro della questione non sono gli eccessi dei saccheggiatori e tantomeno la fondatezza delle rivendicazioni dei manifestanti. Il punto sono gli esiti che le proteste potranno avere ed è su questo che intendiamo porre l’attenzione. In primo luogo, occorre osservare che lo spontaneismo di massa che ha animato le manifestazioni parrebbe essersi saldato, su ambo le sponde dell’Atlantico, con la galassia culturale che genericamente potremmo identificare con il radicalismo di una sinistra post ideologica. La definizione è piuttosto macchinosa, ce ne rendiamo conto, ma non è facile trovarne una univoca che descriva tutta quell’area genericamente definibile di sinistra, orfana dopo il 1989 di ogni forte riferimento ideologico e che ha trovato in battaglie a “bassa intensità” quali quelle di genere o ecologiche la sua nuova ragione d’essere. Questa variegata galassia post ideologica ha una caratteristica che la accomuna alla Medusa. Come la Gorgone trasformava in pietra ogni cosa sulla quale posava lo sguardo, così la sinistra post ideologica trasforma in fuffa ogni battaglia culturale nella quale si impegna. Pensiamo a quelle di genere; se qualcuno tra i lettori di questo articolo è seriamente convinto che i problemi della disparità di genere si risolvano sostituendo un asterisco alle vocali, abbandoni subito la lettura di questo articolo per dedicarsi a qualcosa di più utile (per lui). Tipo la raccolta fondi per la conservazione di qualche oscura razza di rospi andini o un seminario per la produzione di strumenti musicali etnici ecocompatibili ricavati da materiale di scarto della lavorazione della canapa indiana.

Era quindi inevitabile che quello con il radicalismo di sinistra post ideologica fosse l’abbraccio della morte per il movimento #BlackLivesMatter, per diversi motivi. In primo luogo, il movimento non ha leader. Nonostante alcuni monumenti delle battaglie per i diritti civili degli anni Sessanta negli USA stiano cercando di dargli una direzione, non esiste nessuna Greta Thunberg di #Blacklivesmatter. La mancanza di leader carismatici fa del movimento una facile preda per i furori (post)ideologici del radicalismo di sinistra. Mancando gli “imprenditori della rabbia”, come il filosofo tedesco Peter Sloterdijk definisce le organizzazioni partitiche, la rivolta anziché essere incanalata in una piattaforma programmatica di rivendicazioni pratiche (housing sociale, diritto al lavoro e all’equo salario, protezione dagli abusi della polizia ecc.) si sfilaccia in rabbia fine a se stessa che sfarfalla in un “furor” antiideologico privo obiettivi concreti ma latore di velleitarie pretese etico-morali. Avete mai sentito fino a ora una proposta seria uscire dal magma del movimento? A parte la polemica sul razzismo implicito nel gioco degli scacchi, nel quale “il bianco muove per primo”? Oppure l’operazione di revisionismo “etico” della storia fatta con gli occhiali del moralismo giacobino della sinistra radicale contemporanea, la quale, oltre che essere un obbrobrio culturale simile concettualmente alla retroattività della legge per quanto riguarda il diritto, ha causato degli autentici linciaggi postumi in effigie, come quello toccato al trafficante di schiavi Edward Colton e a Cristoforo Colombo, le cui statue in Inghilterra e negli USA sono state abbattute e gettate in acqua. Il tutto tra l’indifferenza delle élite progressiste occidentali che se da un lato considerano assolutamente legittima la romantica riscrittura del passato nel nome di una sorta di moralismo postumo, dall’altro sono assolutamente indifferenti a sistematiche violazioni dei diritti civili che avvengono nel prosaico presente, basti pensare a Hong Kong. Del resto, è assai più comodo impegnarsi in battaglie etiche piuttosto che in riforme concrete.

La pretesa di guardare al passato con gli occhi del presente è stata descritta da George Orwell nel suo romanzo 1984 e ha un nome ben preciso: totalitarismo. È un esercizio di revisionismo che dovrebbe essere confinato solamente nell’immaginario degli autori di romanzi distopici e in quello dei redattori di riviste come “L’Internazionale” e non diventare un tema del dibattito politico, perché in tal caso gli esiti sono grotteschi.

Rimbaud lasciò la poesia dopo aver scritto un pugno di versi che cambiarono il nostro modo di concepire la letteratura per dedicarsi al traffico di schiavi. Ma studiamo Rimbaud per la qualità della sua produzione letteraria o perché trafficava in schiavi? Céline fu antisemita e collaborò con i nazisti, ma oltre a essere un piromane rivoluzionario del linguaggio, il suo Viaggio al termine della notte è il romanzo, cinico ma non a buon mercato, che meglio ha descritto il Moderno. Gli esempi potrebbero essere potenzialmente infiniti ma l’esito è invariabilmente lo stesso: un grottesco processo a un cadavere come quello che toccò a Papa Formoso.

E qui sta la principale minaccia che incombe sul movimento: vedere l’autorevolezza delle proprie rivendicazioni minata dalla pretesa grottesca e involontariamente comica di adattare il passato al letto di Procuste di un certo presente. O di logorarsi in battaglie formali prive del tutto di concretezza.

Le mobilitazioni senza oggetto hanno poi un’altra pericolosa controindicazione che spesso sfugge. Spammare per ogni dove su ogni social immagini adornate dall’arcobaleno o con l’hashtag #blacklivesmatter a lungo andare può avere effetti deleteri sulla percezione collettiva. Non produce alcun effetto concreto, tranne corrispondere alla moderna ritualità dei social che impone l’adesione a un codice formale puramente di circostanza e contribuisce a costruire nella percezione collettiva la falsa convinzione che essendo un logo o un hashtag così diffusi, non sia affatto vero che esistano discriminazioni di genere o di razza. L’attardarsi su questioni moralisticheggianti anziché su rivendicazioni pratiche ha però un enorme vantaggio: consente di avere una sovraesposizione mediatica con conseguente alto ritorno in termini di immagine senza doversi minimamente impegnare per conseguire risultati concreti. Il volo dentro al fiume della statua dello schiavista Edward Colton non ha mutato di una virgola le condizioni socio-economiche delle minoranze, ma ha dato una somma soddisfazione alle elite morali occidentali, costantemente impegnate nell’attività onanistica e autoreferenziale di attribuirsi totalitariamente il ruolo di riserva etica della società. Tradotto in parole semplici: “di aver ragione loro”. “La società dello spettacolo”, come la chiamava Guy-Ernest Debord non è solo quella che va in scena sulle TV commerciali, evidentemente.