Con Silvia Romano si è tornati a leggere nei commenti social tante dimostrazioni d’odio e incomprensione nei confronti della religione islamica e ancora una volta una diffidenza che sfocia spesso in razzismo verso le persone musulmane. È bastato vedere la cooperante rapita in Kenya 18 mesi fa al suo ritorno a Ciampino con il chador per scatenare su di lei un gigantesco odio non solo virtuale. Finora sono una quarantina i messaggi minatori considerati pericolosi, soprattutto per la sua decisione di convertirsi all’Islam. Tanto da far prendere la decisione, da parte dipartimento antiterrorismo, guidato dal pubblico ministero Alberto Nobili, e dei carabinieri del Ros di aprire un’indagine. Ritorna a galla, con prepotenza, l’intolleranza religiosa. Ma l’odio verso la giovane era già evidente sin dalle prime settimane dal rapimento. Abbiamo raggiunto Elisa Martini, dottore in Sociologia e collaboratrice al dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento. Si occupa da anni di temi legati alle migrazioni. Il suo ultimo libro, scritto a più mani, è uscito per la casa editrice Springer e si intitola Technology in Human Smuggling and Trafficking.

Dottoressa Martini, quanto peso hanno i racconti dei mass media su questo ritorno all’islamofobia?

Elisa Martini

«I media hanno un peso rilevante nella diffusione di discorsi stereotipati che veicolano poi l’odio islamofobo on-line e nella vita reale. La stessa “Associazione Carta di Roma” – fondata nel dicembre 2011 per dare attuazione al protocollo deontologico dell’Ordine dei giornalisti del 2008 per una informazione corretta sui temi dell’immigrazione – è intervenuta pubblicamente a sostegno di Silvia Romano affermando che la possibilità di un’informazione completa su eventi complessi e ancora in corso di chiarimento si collega al rispetto dei principi deontologici che costituiscono l’essenza stessa della professione giornalistica. Un’informazione che, tra l’altro, sappia spiegare a lettori e telespettatori non solo la conversione di Silvia Romano ma anche il contesto in cui è avvenuta, la presenza del radicalismo islamico in quell’area e la ferocia di Al-Shabaab, le condizioni generali della Somalia e la sua progressiva radicalizzazione. Accuratezza e correttezza dell’informazione e rispetto della verità sostanziale dei fatti sono principi che la Carta di Roma ha fatto propri e che sono argini alla propagazione di odio, falsità e discriminazione. Peccato, poi, che nella pratica molti siti di informazione, testate giornalistiche e televisione abbiano enfatizzato e spettacolizzato la sua conversione.»

Cos’è il progetto Hatemeter? Cosa si è monitorato e da dove è nata l’esigenza della ricerca?
«Il progetto nasce dalla collaborazione tra accademia e organizzazioni non governative. L’Università di Trento ha risposto a una call della Commissione europea il cui obiettivo era quello di indagare fenomeni relativi a diritti di cittadinanza europea, lotta alla discriminazione, prevenzione e lotta all’intolleranza. Nello specifico “Hatemeter – Hate speech tool for monitoring, analysing and tackling Anti-Muslim hatred online” ha permesso di costruire una piattaforma ICT in grado di misurare, monitorare e contrastare il discorso d’odio online nei confronti delle comunità musulmane, anche attraverso l’ausilio di contro-narrative semi-automatizzate atte a sostenere il lavoro quotidiano degli operatori delle organizzazioni organizzative che si battono contro la violenza della rete. È un progetto che ha coinvolto un team multidisciplinare, composto da giuristi, criminologi, sociologi ma anche, e soprattutto, da ricercatori specializzati in digital humanities e in linguistica computazionale. Nello specifico, il progetto è stato coordinato dall’Università di Trento e ha avuto come partner Fondazione Bruno Kessler (IT), Teesside University (UK), University Toulouse1 Capitole (FR) e tre organizzazioni non governative: Amnesty International Italia (IT), Stop Hate UK (UK), Collectif contre l’islamophobie en France (FR).»

Quali pregiudizi emergono nel progetto Hatemeter e quali differenze vengono evidenziate tra diverse provenienze degli utenti, geografiche o di genere, piuttosto che di età? C’è una differenza evidente tra odiatori da tastiera rispetto alla nazionalità di appartenenza?
«Non posso rispondere a questa domanda, non solo perché non era tra gli obiettivi del progetto, ma specialmente perché l’identità digitale di una persona non necessariamente identifica le caratteristiche sociodemografiche della stessa, inclusa la nazionalità. Diverse ricerche accademiche hanno dimostrato un aumento dei messaggi contro l’Islam da parte di gruppi fondamentalisti neofascisti e cattolici e anche il nostro studio ha rilevato un preoccupante numero di messaggi islamofobi in tutti e tre i Paesi oggetto d’analisi (Italia, Francia, UK). Questi numeri sostengono in parte quanto riportato dall’associazione “Vox diritti” – che monitora l’odio online da anni con la sua Mappa dell’intolleranza –, la quale indica i musulmani come quarto gruppo maggiormente preso di mira su Twitter lo scorso anno. I discorsi d’odio online sono in aumento anche e soprattutto per le caratteristiche insite della rete, ovvero: la permanenza nel tempo della manifestazione di odio; la reticolarità, ovvero il suo “ritorno imprevedibile”, per via dello sfruttamento del medesimo contenuto da parte di utenti di varie piattaforme in tempi diversi; la percezione che sovente hanno gli autori dello hate speech di essere protetti dall’anonimato; la diffusione transnazionale dei contenuti e, conseguentemente, il loro maggiore impatto sociale rispetto ai contenuti offline; la diffusione di tali contenuti anche grazie ai trending topics selezionati dai principali social network. Attraverso l’utilizzo della piattaforma Hatemeter sono stati analizzati oltre 3mila tweet di odio verso l’islam e i musulmani e questo ha permesso anche di capire che questo genere di messaggi sono in aumento e sono strettamente legati alla percezione che hanno gli italiani delle migrazioni e del terrorismo. Uno dei picchi di maggior numero di tweet contro l’Islam è stato registrato dalla nostra piattaforma del dicembre del 2018, in concomitanza con l’attentato che ha portato alla morte del giovane Antonio Megalizzi. Probabilmente anche la liberazione di Silvia Romano e la notizia della sua conversione ha prodotto lo stesso risultato.
Inoltre, attraverso un’analisi semantica dei messaggi d’odio online verso le comunità musulmane, è emerso che la narrativa usata dagli haters richiama frequentemente al “noi contro loro”, ad un uso frequente di aggettivi disumanizzanti, un racconto che mette al centro la minaccia sociale e la fobia. Nell’analisi dei discorsi d’odio, il progetto ha fatto emergere tre temi principali: i concetti di terrorismo e invasione, la questione migratoria legata al dibattito politico e la fobia dell’islamizzazione. Un ultimo risultato rilevante, a mio avviso, riguarda la caratteristica di intersezionalità dei discorsi d’odio online, ovvero dei tanti tratti che possono comporre – agli occhi del suo detrattore occasionale o seriale – il profilo della vittima d’odio. Il caso di Silvia Romano è un esempio lampante: odiata in quanto convertita all’Islam, donna e volontaria per un’organizzazione non governativa.»

L’odio online oggi verso le persone di differente religione da dove nasce? Risale forse dall’11 settembre 2001 o ha radici molto più profonde?
«A mio parere, la paura dell’invasione, dell’espropriazione, della sostituzione o della sovrapposizione delle leggi e delle regole dell’Islam alle nostre abbia origine profonde che l’11 settembre 2001 non ha fatto altro che acuire. La paura del diverso, in questo caso su base religiosa, è un meccanismo cognitivo che esiste nell’essere umano  e su cui si radica la discriminazione attraverso due processi: quello di categorizzazione, ovvero il raggruppamento di stimoli ambientali in insiemi omogenei allo scopo di inquadrare i nuovi eventi in un sistema coerente di interpretazioni; e quello della generalizzazione, ovvero la tendenza della mente umana a considerare i tratti distintivi di un gruppo sociale come molto più diffusi di quanto non lo siano realmente. Si tende, quindi, ad estendere le osservazioni effettuate sui pochi eventi disponibili a una serie di eventi: generalizzazione dal singolo alla categoria di appartenenza per semplificare una realtà altrimenti troppo complessa. Se tali processi da un lato sono fondamentali – perché sentirsi parte di un gruppo permette di conoscere bene se stessi, costruire la propria identità e ridurre l’incertezza –, dall’altro comportano relazioni conflittuali o di discriminazione verso gruppi differenti, i quali vengono visti come pericolosi o da evitare.»

Monitorando l’odio on-line, cosa è cambiato a livello di percezione negli ultimi anni? Dieci anni fa la percezione era diversa? C’è stato un “anno zero” in questo senso nei confronti dell’Islam?
«Ciò che ha contribuito alla diffusione di discorsi d’odio on-line in Italia è dovuto principalmente all’ascesa di gruppi politici di stampo populista e sovranista che hanno usato alcuni fenomeni emergenziali – come l’aumento dei flussi migratori dopo la crisi in Siria del 2013 e gli attacchi terroristici avvenuti in Europa negli ultimi anni – come topics dell’agenda politica, allo scopo di creare un capro espiatorio esterno per fomentare la paura del diverso e allontanare i cittadini dai veri problemi delle nostra società, in primis una accentuazione delle disuguaglianze sociali e un allargamento della forbice tra ricchi e poveri.»

Spesso le persone non sanno riconoscere la differenza di concetti come Islam e Isis, piuttosto che estremismi religiosi. Quali strumenti si potrebbero mettere in campo per cambiare la visione dell’attualità e della storia?
«Io credo che in sintesi esista un unico strumento che possa essere messo in campo per cambiare la visione dell’attualità e della storia: l’educazione, declinata, ad esempio in educazione ai diritti umani, alle diverse culture e religioni, all’uso corretto dei social. Il coinvolgimento attivo dei giovani è fondamentale per cambiare i paradigmi identitari e culturali della nostra società, partendo dalla scuola e dal mondo dell’associazionismo.»

In Italia qual è la “diversità” che ancora scatena la maggior parte di commenti razzisti e denigratori on-line?
«Rispondo molto lapidariamente: essere donne, purtroppo.»

Di seguito il video realizzato da Matteo Scotton, director & film maker.