C’è stato un tempo in cui il giornalismo sportivo costruiva miti. Un tempo prima della televisione e prima della comunicazione preconfezionata dagli uffici stampa. Un tempo in cui i giganti della letteratura come Dino Buzzati – morto esattamente cinquant’anni fa – seguivano le epopee sportive e le raccontavano attraverso gli occhi dei visionari, capaci di vedere oltre la semplice cronaca e di creare immaginario.

Di questo tempo e di questi uomini ci racconta Adalberto Scemma, maestro di giornalismo sportivo e di comunicazione tout-court che in barba all’età si lancia alla scoperta di nuovi mezzi comunicativi. Il suo nuovo progetto si chiama “Visionari: i grandi maestri della letteratura sportiva”, una serie di podcast realizzati da Storie Avvolgibili e dedicati ai grandi maestri del giornalismo, da Orio Vergani a Luigi Gianoli, da Giovanni Arpino a Gianni Mura.

Scemma, la prima domanda riguarda il titolo del podcast “Visionari: i grandi maestri della letteratura sportiva”. Qual è il rapporto tra giornalismo sportivo e letteratura sportiva?

Non ci riferiamo certo al tempo attuale. Parliamo del periodo dagli anni ’50 in poi. All’epoca c’era un giornalismo di maniera, prima ancora che arrivasse Gianni Brera a scardinare un po’ tutto, poi improvvisamente ci fu la scelta da parte dei quotidiani di inserire i cosiddetti coloristi: giornalisti che non si occupavano di cronaca ma che, in assenza della televisione, raccontavano gli avvenimenti da una diversa angolazione, più popolare e più legata alla lettura. E così trovarono spazio nell’informazione sportiva figure come Dino Buzzati, Orio Vergani, Del Buono, Mario Soldati, più tardi Giovanni Arpino, lo stesso Indro Montanelli che ha seguito addirittura un Giro d’Italia. Questi opinionisti sono stati utilizzati da giornali grossomodo fino al mondiale dell’82, poi lo strapotere della televisione e il cambiamento totale della comunicazione hanno reso praticamente inutile – addirittura superfluo – il contributo di questi personaggi di alta classe e dalla scrittura magica.

Sempre parlando di sport, ha l’impressione che la frattura tra informazione e letteratura sia diventata più profonda?

Diciamo che oggi un giornalista come Gianni Brera non avrebbe spazio. Nei giornali come li conosciamo oggi, con pezzi di quaranta o cinquanta righe, non avrebbe avuto modo di esprimersi. Lo stesso Gianni Mura aveva sofferto molto queste limitazioni. Oggi, a mio parere, c’è un solo quotidiano che segua lo sport – e la letteratura sportiva – dedicando intere paginate, come una volta: è la Gazzetta di Parma, non a caso diretta da Claudio Rinaldi, un breriano doc.

Dove individua questo cambiamento, la fine della letteratura sportiva sui quotidiani, e come lo interpreta?

La fine vera e propria è stata all’inizio degli anni ’90. Italia ’90 è stata forse l’ultima occasione per avere qualche squillo da parte di questi giornalisti straordinari. Già al mondiale americano si è visto l’ingresso in tackle delle televisioni che hanno invaso completamente il territorio della comunicazione di colore, togliendo lo spazio al giornalismo scritto che prima era dominante. Fino a quel punto gli opinionisti facevano tutti capo ai quotidiani, ma il trasferimento dei giornalisti d’opinione alle televisioni ha reso la lettura sempre più inutile e scarnificata. C’è stata un’invasione di campo da parte degli schermi e una trasformazione completa del modo di comunicare. Non c’è un rimpianto di quei tempi, solo il ricordo di questi grandi esempi di giornalismo. Avere rimpianti per un vecchio giornalismo in un mondo completamente cambiato non avrebbe alcun senso. 

Adalberto Scemma al Festival del Giornalismo – Foto di Corrado Benanzioli

Rimanendo sul tema dei media e delle loro logiche. Lei ha detto che il podcast non è un metodo nuovo ma un ritorno a una nuova oralità. Secondo lei questo format può rappresentare un argine all’impoverimento del linguaggio?

Assolutamente sì. Forse è l’unico modo. Forse il mio è un discorso visionario, ma credo che nella vita bisogna sempre metterci qualcosa. In questo caso bisogna metterci la voce. Ricordo sempre una frase di Caetano Veloso, cantante e autore brasiliano, secondo cui la voce va usata come uno strumento, deve essere funzionale alle esigenze dell’orchestra. Il podcast è una specie di partitura che accompagna e costringe all’ascolto. Non a caso si usa l’espressione “leggere con le orecchie”. Con il tempo che ci sfugge i giornali sono ormai giornali-kleenex che si sfogliano rapidamente senza che resti molto. La voce invece ha un effetto quasi ipnotico, quasi sciamanico, ha l’effetto di una calamita che ti accompagna. Si può ascoltare sempre, in qualsiasi momento, e si adatta benissimo alle nuove esigenze di vita. La proliferazione dei podcast lo dimostra, e credo che sia una nuova opportunità per la letteratura e l’approfondimento di riconquistare quello spazio che sull’informazione scritta di massa fatica a trovare. Il podcast è un viaggio nel tempo che ti lascia sempre il piacere della scoperta.

La scrittura più immaginifica scalzata dalla televisione, e ora il suono che va a recuperare il valore del testo? 

È proprio così. Non a caso la radio è l’unico mezzo che la televisione non è riuscita a invadere. La radio ancora oggi ha un grande successo e produce contenuti di altissima qualità. Con il podcast il ritorno della voce riporta ad abitudini antiche, ai filò, alle tradizioni dell’oralità antica e del racconto delle storie. Soprattutto con i ragazzi il podcast ha avuto negli ultimi anni un boom assoluto. Io ho iniziato quasi per caso un paio d’anni fa con un podcast dedicato al centenario di Gianni Brera. Un contenuto molto lungo che però ha subito avuto un grandissimo successo. Così ho continuato e sono arrivato fino ad oggi con il progetto di Visionari, questi personaggi della letteratura, molti dei quali sono sconosciuti ai giovani mentre hanno sono dei veri e propri cardini della mia generazione di giornalisti.

La parola “visionari” solleva il problema annoso del rapporto tra il giornalista e la realtà o la verità. In che senso un maestro dell’informazione deve essere un visionario?

Perché un maestro del giornalismo deve vedere oltre i contenuti della coscienza e può farlo solo usando il terzo occhio. L’occhio dei profeti, degli sciamani e dei visionari. Quando Buzzati dice che «Dietro la montagna può esserci l’infinito» si riferisce proprio alla capacità di vedere oltre le cose e di raccontare per immagini. Chiaramente la scrittura, quando è calata in questa dimensione, assume un ritmo simile al fiume che scorre, una scrittura che si può vedere e che si può sentire e che è in grado di calamitare l’attenzione e l’immaginazione in un modo quasi psichedelico.

In questi giorni ricorre il 50esimo anniversario dalla morte di Buzzati. Lei ne ha un ricordo personale…

Buzzati davanti alla sede del Corriere

È stata una coincidenza del tutto casuale. Nella scansione che avevamo previsto inizialmente, la prima puntata avrebbe dovuto essere dedicata a Gianni Mura, contestualmente però è uscito un libro dedicato allo stesso Mura che ho curato io assieme a tutti i vecchi Breriani e Muriani (Per Gianni Mura, Edizioni Zerotre, ndr), così abbiamo deciso di cambiare per evitare sovrapposizioni. Il nome di Buzzati è uscito per caso, senza pensare all’anniversario della morte. La data di uscita era il 28 gennaio, e quando siamo andati a verificare le date ci siamo accorti che proprio il 28 è il cinquantesimo della morte di Buzzati. Io l’ho interpretato come un messaggio sciamanico, e non a caso, conoscendo Buzzati. Io ho incontrato Dino Buzzati di persona: era il ’67, e anche in quella breve conversazione è affiorato il suo realismo magico.

L’altro termine che lei ha usato è esploratore senza bussola. Nell’epoca dell’informazione preconfezionata in cui le telecamere entrano persino negli spogliatoi asettici e preparati dagli sponsor, si può essere ancora esploratori?

Naturalmente questo è un tipo di comunicazione che fa il gioco ai “padroni del vapore”, in particolare del calcio. Ti impediscono persino l’approccio con gli atleti. Noi non sappiamo assolutamente nulla di questi personaggi da un punto di vista umano. È quasi impossibile intervistare un calciatore se non collettivamente in conferenza stampa. Le domande sono preconfezionate, l’addetto stampa le taglia e le cassa, impedisce completamente il contatto. Ai tempi miei e di Gianni Mura si poteva stare a bordo campo dopo l’allenamento e chiamare un giocatore con un cenno per fare due chiacchiere. Oggi la situazione è completamente cambiata. D’altronde quando ho cominciato, nel 1969, i giornalisti professionisti erano duemila, oggi siamo forse centomila. È ovvio che le società sportive debbano filtrare l’accesso. Così l’ufficio stampa non è più un aiuto per il giornalista ma una barriera. Un mezzo per impedire al giornalista di esercitare fino in fondo il proprio mestiere. In effetti oggi, se parliamo di esploratori senza bussola, è necessario andare a caccia di storie. Ma quali storie? Una volta il mondo consentiva il racconto, la mescolanza di elementi reali e suggestioni, la base stessa del realismo magico, per tornare a Buzzati. Oggi la televisione e i social ci hanno tolto per sempre questa possibilità. Rimane la radio e rimangono i podcast: uno spazio di libertà che può sopperire alla massificazione dell’informazione e la possibilità di approfondimento. 

Adalberto Scemma al Festival del Giornalismo fra Furio Zara e Annachiara Spigarolo – Foto di Corrado Benanzioli

Lei è stato ed è un maestro per una generazione di giornalisti sportivi. Quale consiglio darebbe a un giornalista che volesse seguire una strada da esploratore?

Il consiglio è di assecondare il proprio temperamento senza farsi condizionare dalle mode. Un buon esempio sono i due miei allievi – che ora sono tutt’altro – che erano con me al Festival del Giornalismo di Verona: Furio Zara e Annachiara Spigarolo. Sono due giornalisti che sono entrati nella professione senza “marchettare” e senza “marchettarsi”, ma semplicemente seguendo una strada di qualità che ha imposto loro dei sacrifici e delle rinunce, ma non hanno mai rinunciato al loro stile e alla qualità della comunicazione. Oggi Furio Zara è opinionista della Domenica Sportiva e Anna Chiara Spigarolo è diventata la numero uno sia a livello televisivo che di scrittura nell’ambito dell’atletica leggera. Sono due esempi di ragazzi ai quali ho sempre consigliato di non tradirsi e non scendere ai compromessi e al narcisismo personale che spesso gli schermi offrono. 

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